giovedì 30 giugno 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Parte settima


Dopo che avemmo pranzato passò all'attacco e mi disse chiaro e tondo il motivo per cui mi aveva cercata. Dopo la morte degli Zervos nessuno ancora se l'era sentita di prendere in mano l'eredità del loro lavoro e di concludere il Catalogo, e si era accumulata un'enorme quantità di quadri, disegni, schizzi, gouache in una grande confusione di date. Non era stato più registrato niente, e la seconda moglie e ultima compagna di vita del maestro, Jacqueline Roque, con la sua pretesa di controllare tutto, di vedere tutto e supervisionare tutto metteva ancora più confusione nella gran confusione. "Questo è il momento, mi disse Josephine; ho visto alcune tue imitazioni che sembrano veri Picasso. Copiare la sua firma sarà un gioco da ragazzi, potrei farlo anch'io. Ti giuro che c'è da fare un sacco di soldi".
Obiettai che che c'erano già tanti falsari in galera e che non mi sembrava il caso di sovrappopolare le celle. "Uno o due quadri soltanto, mi rispose; pensavi di dover fare una serie? Picasso di solito di un soggetto dipingeva tre o quattro quadri in un giorno con minime variazioni. Uno o due quadri, ti ripeto, possibilmente del '68 o del '69 quando Christian Zervos era ancora vivo. Io sarò la testimone vivente dell'autenticità, io e la mia macchina fotografica, e i quadri verranno catalogati insieme agli altri. Stai tranquilla che non c'è nessun pericolo: ho già pensato io a tutto".
Esther si deterse il sudore dal viso con un fazzolettino di lino; si accomodò al meglio sui cuscini, poi raccolse le foto che aveva sparpagliate sulla coperta.
Verena intanto teneva le labbra tenacemente incollate: temeva le sfuggisse una domanda o un commento. Si sentiva parzialmente confusa e integralmente fatta, come dopo una sniffata di coca, ma non era così stupida da correre il rischio di arrestare con una sola parola l'accadimento di un evento che ormai le sembrava certo. In due giorni quell'anziana donna le si era trasformata davanti agli occhi da mite studiosa di antichi testi teologici a una intrigante e spregiudicata protagonista della storia che tante vite umane aveva distrutto o radicalmente cambiato; ma adesso le si stava per rivelare come un'astuta truffatrice, una falsificatrice di quadri d'autore, una volgare arraffa soldi senza scrupoli. Perché lei si decidesse a vuotare il sacco alla svelta Verena tenne le labbra serrate e attese.
-Mi convinse. Ma non fu Josephine con le sue chiacchiere, o la bramosia dei tantissimi quattrini che avrei potuto lucrare: a convincermi fu l'idea che sarei entrata in quel Catalogo di cui si favoleggiava; che uno o due quadri da me dipinti potessero finire affissi alle pareti di un museo internazionale, guardati e ammirati da milioni di persone, copiati da migliaia di giovani pittori, questo mi convinse, e dicendolo porse alla ragazza le due piccole foto a colori. Dipinsi tre Picasso. Questo è il primo: si tratta di una raffinata variazione del "Mousquetaire à la pipe", che Picasso dipinse il 16 ottobre 1968. Al posto dei rossi ho usato toni di verde, al posto del grigio l'azzurro e un po' di nero. Cambia la posizione delle gambe e la poltrona dove il fumatore siede è più massiccia. Questa qui è la foto di Josephine che è finita sul Catalogo, e questa me la scattò mentre ero all'opera, aggiunse offrendo a Verena una piccola fotografia in bianco e nero. Nessuno ha mai sollevato dubbi sull'autenticità di questo quadro.
Raccolse un'altra pagina di giornale e la porse a Verena. In un breve articolo si dava notizia dell'acquisto da parte di un collezionista americano del quadro "Mousquetaire à la pipe dans un fauteuil", dipinto il 19 ottobre 1968 per un milione e mezzo di dollari.
-Non ho avuto un centesimo; lei è padrona di non credermi. Ero orgogliosa e felice, mi bastava pensare che qualcuno avesse tirato fuori tutti quei soldi per un quadro che avevo dipinto io. Ma era un Picasso vero quello e non un Samenberg.
Le mostrò l'altra foto a colori.
-Questo è il secondo quadro che dipinsi, una imitazione di "Tête d'homme", che Picasso realizzò il 6 luglio del '69. Niente rosso veneziano nel mio, ma rosa acceso e violetto al posto del verde; per il resto poche variazioni come avrebbe sicuramente fatto il maestro stesso. In questa piccola foto in bianco e nero sto sorridendo a Josephine che mi ritrae col pennello in mano pronta ai ritocchi conclusivi.
Rimase un attimo silenziosa tenendo gli occhi chiusi.
-Questo quadro nasconde una tragedia, disse infine. Josephine lo portò a Mougins nel febbraio del '74, nascondendolo arrotolato dentro un suo stivale. Mi telefonò per dirmi che tutto era andato liscio e che mi avrebbe fatto sapere quando ci saremmo riviste. Passarono molte settimane durante le quali non si fece viva, non mi scrisse né mi telefonò; ma io non diedi peso alla cosa, perché Josephine era fatta così, prendere o lasciare: quando le veniva un'idea in testa le correva dietro e si dimenticava del mondo intero, e c'è da dire che a lei di idee per la testa gliene passavano sempre cento alla volta.
Alla fine di aprile mi arrivò dentro questa busta spiegazzata una mezza pagina de "Le Figaro". Un articolo breve, stringato, un po' freddo sul suicidio incomprensibile di Josephine Kneff.
"Anche il terzo lato del triangolo Zervos se ne è andato" era il titolo dell'articoletto.
"Nessun biglietto, nessuna lettera di addio come ogni buon suicida usa fare, nessuna spiegazione".
Non mi sembrava un comportamento da Josephine, di cui non conoscevo però niente all'infuori di quel che mi aveva raccontato lei nei pochi mesi della nostra convivenza. Ma Jacqueline Roque-Picasso, che molto bene l'aveva conosciuta, da me raggiunta per telefono, confermò la mia impressione. Mi disse di essere rimasta sbalordita da quel che era successo. "Ci eravamo incontrate la sera prima, ricordò Jacqueline; parlammo del Catalogo, come sempre, perché stava a cuore a entrambe, e di cento altre cose. Era tranquilla, mi sembrò anche allegra. Ci demmo appuntamento per il giorno dopo". Invece lei il giorno dopo si uccise. Anche a madame Picasso sembrava un comportamento assai insolito. Ma la polizia parigina non aveva dubbi, mi disse: Josephine si era sparata una revolverata in bocca con un revolver da cowboy ragalatole da Pablo, che a sua volta lo aveva avuto in dono da Gary Cooper. Una morte atroce. Ma chi era che ci teneva tanto che io ne fossi informata inviandomi quella busta? Chi era che sapeva dei miei recenti rapporti con Josephine, e quanto ne sapeva? A me Josephine aveva parlato di un segreto estremo, tra noi due sole, come era logico che fosse: in fin dei conti avevamo commesso un reato di truffa e chissà quanti altri ancora. Era inimmaginabile che ne avesse fatto parola anche con altri. Aspettai quindi con ansia un'altra lettera o comunque un altro segnale, ma dopo questo pezzo di giornale più nulla, per mesi interi. Mi occorse molto tempo per riprendermi dallo shock di quel suicidio assurdo e dalla paura di chissà quale ricatto.
La prima settimana di ottobre di quell'anno mi fu recapitato un pacco spedito a Parigi da un anonimo mittente: conteneva uno stivale da donna del tutto simile a quello con cui Josephine aveva contrabbandato il mio falso Picasso. Lo stivale aveva un foro sulla punta. Lei non lo sa, Verena, ma in quei tempi veniva proiettato nelle maggiori sale cinematografiche europee il western di Sergio Leone "La conquista del West". C'era una scena dove uno dei buoni ammazza uno dei cattivi nascondendo il revolver dentro uno stivale. Il messaggio era forte e chiaro: qualcuno mi mandava a dire che sapeva dei falsi e che Josephine era stata "suicidata".
Precipitai nel panico e durante una di quelle notti insonni decisi di dipingere il terzo Picasso. Questa volta non volevo un'imitazione: doveva essere una copia esatta, come ai tempi dell'Accademia di Brera. Scelsi "Le baiser", dipinto a Mougins il 26 ottobre del '69 e inserito nel XXXI° volume del Catalogo Zervos alla pagina 484, quindi un falso assolutamente documentabile. Questa l'ho scattata e sviluppata io stessa, disse mostrando a Verena la grande foto in bianco e nero. Scelsi quel quadro dopo attenta ricerca per via del suo formato: era una tela di 97 centimetri per 130. esattamente lo spazio che serviva a me. Non assuma quell'espressione attonita, Verena: non può capire nulla finché non le avrò spiegato tutto. Avevo un testo da trascrivere e da nascondere in modo definitivo, un testo del tutto inintelligibile per me; usando un proiettore mi serviva una superficie come quella di quel quadro per essere sicura di avere l'ingrandimento giusto per non confondermi nella trascrizione dei segni, dei numeri e delle parole che non conoscevo. Non potevo sbagliare e non potevo attendere: sospettavo che dietro la morte di Josephine ci fosse qualcosa di molto più grosso di una storia di falsi. Chi aveva ucciso Josephine conosceva il mio segreto.
Tenne un attimo il fiato sospeso per sentire se le arrivava qualche esclamazione soffocata, ma Verena rimase ostinatamente zitta, perché il ruolo della spalla che offre la battuta alla prima attrice per farle fare un figurone non le piaceva. Se ha qualche nuovo segreto da scoprire lo scopra, pensò, e che sia fatta la volontà di Dio.


Settima pausa





7 commenti:

  1. TA-LEN-TO.

    Un abbraccio. :)

    P.S.: oggi ti ho mandato una mail. Ciau. :D

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  2. Aspetta a parlare di talento, vedrai dopo...eh eh eh!
    Ricambio l'abbraccio, fratellino.

    P.S. : letta la mail. Grazie. Ciau. :D

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  3. mamma mia! sempre più intrigante e complicato.
    scrivere qualcosa di più semplice, alla moccia, no? ;)
    ... ho qualche domanda, sei pronto?
    - hai il pallino della falsificazione dei quadri, iacoponi? c'è qualcosa di autobiografico?
    - nel tuo martedì l'INNOMINATO finisce in galera per qualcosa del genere o ricordo male?
    - mi sono sempre chiesta: ma come fanno a scoprire l'inautenticità di un quadro?
    - a parte l'emicrania tramologica che mi crea questo racconto comunque scritto bene, alla iacoponi best, posso dirti qual'è l'unica frase che a naso mi stona, in un testo che fila giù liscio come acqua?

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  4. Silvia, qual'è l'unica frase che a naso ti stona nel testo?
    Rispondo alle domande.
    -Non ho il "pallino della falsificazione dei quadri". Nei miei verdissimi anni sono stato un "negro" di Gentilini, insieme ad altri colleghi. Lui metteva la firma, qualche pennellatina con minuscole tracce di colore, poi passava all'incasso. Per una tela 140 x 110 prendeva non meno di due milioni (parliamo degli anni 55-60). A me dava 60.000 lire per l'intero quadro!!!
    -Non c'è niente di autobiografico, mi ci hai fatto pensare tu adesso, ma certamente sono un esperto e so come si copia e come si imita lo stile di un pittore. Copiare significa fotografare un quadro, come fa la Samenberg col suo ultimo. Imitare significa falsificare, fare un quadro nuovo con lo stile del pittore.
    -Ricordi male: l'Innominato finisce in galera per salvare sua moglie, che insieme a un'altra combinano l'affare dei mobili d'arte, con spiacevoli conseguenze.
    Occorreva una volta molta esperienza e tanta conoscenza dell'autore. Soprattutto nella firma si riconosce un falso. Ecco perché i pittori -come Gentilini- che usano i negri firmano poi i loro quadri.
    Negro nel senso di schiavo, ma non è mia terminologia, vengono chiamati così i collaboratori in nero.
    -Se questa era la domanda, la risposta è: ma certamente! Come amica, come lettrice, puoi pormi le domande che vuoi. Io non sono di quegli autori che rispondono "questa sua domanda riguarda l'intima sfera della mia creatività e preferisco non risponderle".
    Per cui azzarda pure la domanda.
    Qual'è l'unica frase che a naso ti stona "in un testo che fila giù liscio come l'acqua"?

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  5. scusa, ero disconnessa.
    (lo sono tuttora)
    (lo sono sempre stata, in un certo qual modo);)

    Dunque, la frase che mi stonava era: Si sentiva parzialmente confusa e integralmente fatta, come dopo una sniffata di coca
    Che c'entra la coca con un tipino a posto e inquadrato come la signorina Verbena? Mi sembra che insieme proprio non ci stiano. Sì, lo so che è solo un paragone, ma ugualmente.
    O forse sono io che mi sono fatta un'idea sbagliata di questa Verena.
    (Verbena, però, come nome è più carino)
    ciao

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  6. Non ci avevo fatto caso. Comunque nella mia testa sta Verena era così, forse un po' troppo moderna in certe cose, anche se molto tradizionalista in altre. Me la sono immaginata come una che una buona sniffatina in società, una certa società, poteva essersela fatta. Per cui le viene fatto di pensare a quel paragone, un po' osé.
    Non era una bazzecola. Sei stata brava a notare la discrepanza, vuol dire che leggi con attenzione.
    Ci metti l'anima, come diceva il mio grande e vecchio Prof. Agostino Masaracchia; grande Prof.
    Come vedi non sei disconnessa di continuo, come sospetti.

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