giovedì 2 ottobre 2014

LE TRE RACCHIETTE DELLA TIRINDERA

Quando avevo quattro anni ero un bambino tanto carino e tanto sexi, eternamente incazzato nero. Lo si deduce dalle mille e passa foto che papà, grande artista della fotografia nel tempo libero che gli lasciava il suo lavoro in Banca, mi scattava in ogni momento della giornata. A guardarle si capisce perché adesso sono some sono: ero sempre ingrugnato, e ce l'avevo sempre con qualcuno. Però ero tanto carino, con la frangetta e la riga in mezzo salomonica e diritta, mia mamma ci metteva cinque minuti almeno ogni mattina a pettinarmi; io chiudevo gli occhi e la lasciavo fare. Ogni tanto una sbirciatina al suo bel viso -ero innamorato cotto di lei- per vedere come andava l'operazione. Quasi sempre la sorprendevo con lo sguardo intenso e la punta della lingua un po' fuori dalle labbra, segno di massima concentrazione. Dopo tutto ero il suo ultimo capolavoro, il primo lo aveva partorito tredici anni prima di me ed era veramente bello, troppo bello ma io non lo invidiavo perché lui era il mio idolo.
Che fossi sexi me lo diceva il fatto che tutte le mie coetanee della nostra via e di quella vicina facevano passa e spassa sotto il balconcino dove mia nonna mi teneva parcheggiato, qualche volta inchiodato, perché non combinassi guai tutta la mattinata. Faceva caldo ma non c'era sole, che stava dall'altra parte della casa, dove era la nostra cucina, quindi non correvo il rischio di beccarmi un'insolazione.
Naturalmente nessuno usava nel 1938 quella parola inglese, "sexi". Proibito, come tutte le parole di estrazione non latina. Questo lo dico oggi io, ma allora il passa e spassa lo faceva capire, e mia nonna borbottava sempre contro le madri della ragazzine, che non sapevano educarle. A me sembravano tanto bene educate, sempre col sorrisino e la manina agitata davanti al visino e quel "ciao Enzo", che dicevano strusciando quel ciao che sembrava una carezza sulla groppa di un micetto.
Poi c'erano le tre cugine del piano di sotto. Cioè, due erano sorelle e in più c'era  una cugina che abitava con loro. Avevano quindici anni le gemelle e un anno di più la cugina. A me sembravano tanto carine. Mi facevano le mossette, mi mandavano baci con la punta delle dita, ma io non mi sono mai montato la testa perché sapevo che mi si volevano comprare per via di mio fratello, quello tanto bello, insomma l'unico che avevo e che mi sembrava un dio. Ma a sentir lui non erano poi tanto carine, e che me ne stessi tranquillo perché io di donne non capivo ancora niente, invece ci capivo e come, che Elena me l'ero scelta io ed era la più bella di tutte e aveva anche un anno più di me. Mio fratello diceva della tre cugine che erano pelose come le scimmie e le chiamava le tre racchiette della tirindera, che nessuno mai ha saputo, nemmeno papà, che cosa volesse significare. Comunque io lo so: non significava niente e a lui era piaciuto come suonava sto "tirindera", così gli aveva appioppato sto soprannome e con quello si andava avanti.
Che a lui piaceva tantissimo Mimì Villotti se ne erano accorti tutti, anche le tre racchiette, che ci sbavavano di rabbia. Ma Mimì era un sogno. Aveva sedici anni, bruna di capelli e con gli occhi azzurri come sua sorella, che era Elena, la mia Elena vedi caso.
Così succedeva che il mio fratellone quasi un giorno sì e uno no di pomeriggio mi portasse a fare un giro in canna alla sua bicicletta da corsa, una Viscontea viola meravigliosa. Lui partiva con la Viscontea con mamma che urlava dal balcone a me di tenere la bocca chiusa e a lui di andare piano. Fatto l'angolo e spariti dalla sua vista lui pigiava sui pedali come Bartali e io strillavo a tutta ganassa "dai, dai,dai, dai!!". Si andava di fretta perché avevamo l'appuntamento con le nostre ragazze. Quando eravamo alla Chiesa dei Cappuccini Lito si fermava e mi lasciava scendere, che mi faceva male il sedere su quella canna dura. Dopo un po' arrivavano Mimì con la sua bella bici da donna con la retina sulla ruota di dietro e seduta sopra una comoda sella più piccola collegata al piantone c'era Elena, che già diventava rossa come il fuoco appena mi vedeva. Ve l'ho detto che ero sexi.
E poi non vi ho detto che io la baciavo sempre sulle guance, di qua e di là, tutto il tempo, e lei era come un peperone maturo. Ma non mi allontanava mai, insomma ci stava. Poi mi raccontava quello che aveva fatto tutto il giorno, mentre io nemmeno la stavo a sentire. Mi piaceva il suono della sua voce e l'odore della sua pelle. Confesso che mi capitava anche qualcos'altro che non mi capacitavo di capire, ma qualcosa succedeva.
Di notte mentre dormivo mi facevo come la pipì addosso, ma non era pipì, perché non bagnava le lenzuola, ma rimaneva tutta attaccata alle mie mutandine. Al mattino, quando mia mamma mi veniva a cambiare e vedeva sta roba non diceva niente, solo mi metteva mutandine nuove. A me che le chiedevo cosa fosse rispondeva: "Non è niente, solo catarro della vescica". Trovavo veramente strano che mia madre fosse così tranquilla mentre io avevo il catarro dentro la vescica. Doveva essere una cosa seria e lei non reagiva nemmeno. Eppure per una febbricola era capace di tenermi a letto una settimana e adesso col catarro dentro la vescica niente. Davvero incredibile.
A cinque anni quando andai in asilo feci subito una grande amicizia con Enrico Mignanti e Linceo Tacchi. Loro mi hanno insegnato tutte le parolacce che ho usato fino ai miei quindici anni e tutti i trucchi per non farmi pestare da mia nonna. A loro raccontai la storia del catarro della vescica.
"Dì un po', mi chiese Linceo, è una roba bianca, molla molla?"
"Non lo so, risposi. Quando è mattina è dura e secca, ma non ha colore alcuno"
Quei due si guardarono un attimo e poi scoppiarono a ridere.
"Scemo, mi disse Linceo, tua madre ti prende in giro."
"Non è catarro?" chiesi impaziente.
"No, rispose Enrico, è sbora"
"Sbo...che?"
"SBORA!" tutti e due gridando.
"E che roba è?"
"È una cosa che esce dal pisellino quando che sei stato con una donna", mi disse Enrico.
"E perché esce sta roba?"
"Perché tu sei maschio e loro sono femmine, e poi da grandi ci si fanno i bambini" aggiunse Linceo.
"Come si fanno i bambini?"
"Ci impastano roba insieme e le donne se la mangiano e poi fanno i bambini", finì con lo spiegare Enrico con una voce che non ammetteva repliche.
Tornai a casa con Lito, che era venuto a prendermi, ma a lui non dissi niente.
Fuori dal portone di casa nostra c'erano le tre racchiette della Tirindera che mi fecero un sacco di complimenti perché avevo un vestito nuovo. La scusa per attaccare bottone con mio fratello, ma eravamo in ritardo per il pranzo e così lui tirò dritto. Io da parte mia, adesso che sapevo cose importanti sul conto loro e che loro mangiavano quello che io fabbricavo di notte, le diedi un'occhiata di superiorità. Le guardai bene, aveva forse ragione il mio fratellone, erano proprio racchiette.
A pranzo dovemmo mangiare in silenzio io e Lito perché i grandi stavano facendo un discorso molto difficile. Appena smisero io dissi alla mia mamma:
"Non avrei mai creduto che tu sei una bugiarda"
"Cosa?" esclamò lei, mentre il mio papà mi guardava con occhi grandi così.
"Non è catarro della vescica"
"E cosa è secondo te?"
La guardai aggressivo.
"SBORA" le urlai in faccia.
Mi arrivarono due pappine, una di dritto da mia mamma e una di rovescio da nonna.
"Domani lo accompagno io il bambino all'asilo, disse mia nonna con voce cattiva; poi mi sente suor Ada, che permette che là dentro si dicano queste porcherie".
Misi il muso sul piatto e non dissi più niente, mentre il mio fratellone faceva una fatica enorme a non schiattare dalle risate.


***




12 commenti:

  1. E' troppo...! Mi fa male la pancia dal granridere. Grazie Vincenzo quello che hai scritto è stupendo. :)

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    1. Bene entrata Galadriel. Complimenti per il tuo blog, assai curato nella grafica, quello che vorrei fare nel mio ma non mi riesce. Sono venuto a curiosare per vedere chi eri e cosa scrivevi. Bella roba. Ma non ho lasciato commenti. Detesto quella categoria di blogger che si precipitano a piantar commenti di rivalsa o di ritorno, come fosse un obbligo. Non lo è. Se troverò qualcosa di interessante mi farà sentire. Per ora grazie della visita e delle fiere parole.

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  2. Ma quante ne hai da raccontare tu? :D

    Certo che tuo fratello e' stato un eroe a non scoppiare a ridere!!!

    B.

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    1. Ciao nuvoletta vezzosa. Stamattina, freitag e feiertag come sai per la riunificazione della Germania, ho guardato il cielo meraviglioso e niente affatto autunnale che ci sta regalando ottobre. Sereno splendente con una nuvola graziosetta caracollante qualche centinaio di metri sull'orizzonte. Come non pensare a te? Appunto, come? Così ti ho pensato, sdraiata su quella nuvoletta che riposi i piedi liberati da scarpe belle sì, ma troppo strette, che solo voi donne potete indossare, ma si devono snellire le gambe e, come diceva mia nonna quella del manrovescio, "chi bella vuol apparire tante pene deve soffrire". Dondolavi sospesa sopra l'orizzonte sopra il Reno per intenderci, direzione Colonia. Buon viaggio ho detto.
      Carina la storiella, vero? Io mi sono divertito a ricordarla.
      Ciao B. come buon vento ti porta.

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  3. Ma dico Vincenzo, cosa aspetti a mettere insieme i tuoi racconti di vita e pubblicarli?
    Che io devo recensire eh!
    La storia del catarro è geniale.
    Complimenti alla tua meravigliosa mamma!

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    1. Sai che ci sto pensando? Ma mi chiedo se siano poi tanto interessanti i racconti della vita e dei pensierini di un bambino un tantino rompipalle come me. Se li metto insieme te li mando in diretta e tu li recensisci, ok?
      Mamma era bellissima. Papà era geloso fradicio, ma lei poverina non faceva niente di scorretto. Papà mi diceva di uscire sempre con lei, ma non ce n'era bisogno perché lei mi portava sempre con sé anche se a volte le facevo fare figuracce, perché toccavo tutto in casa delle sue amiche. Ma io ero sempre accanto a lei, come mi raccomandava papà. "Tu stalle sempre vicino, non andare a giocare con gli altri bambini, sai?" E io non la mollavo un istante. Quando andavamo al Viale sul lungomare, o al Pincio o a Borgo Odescalchi, c'era sempre qualche signore che si toglieva il cappello e si metteva a parlare con lei, e io mi attaccavo alle sue gambe e chi si muoveva di lì. C'era il signor Anselmo che mi stava tanto antipatico, con la voce caramellosa. Io lo odiavo. "Ma devi sempre parlare con quello lì?". Ma lei mi rispondeva che era un amico di papà, ma io non li avevo visti mai insieme.
      Un giorno arrivò con una rosa e la offrì a mamma. Lei la tenne in mano tutto il tempo, annusandola profondamente ogni tanto. E il signor Anselmo rideva e sembrava contentissimo. Visto che non si decideva ad andarsene io cominciai a dire a mamma a voce sempre più alta: "Mi scappa la cacca! Devo fare la cacca! Hai capito? Mi scappa la cacca!". Finché lei non piantò il signor Anselmo e cercò di ritornare a casa il più velocemente possibile. Ma io tiravo. "dai, non fartela addosso". "Non devo fare la cacca, volevo che se ne andasse via il signor Anselmo, hai capito?".
      Mi afferrò per un braccio. "Queste cose non si fanno, capito?".
      Teneva sempre la rosa in mano.
      "Adesso stammi bene a sentire, dissi. Tu butta subito quel fiore sennò questa sera dico a papà che il signor Anselmo ti ha baciata"
      La mia povera mamma cambiò colore in faccia.
      "Ma non è vero, sarebbe una grande bugia"
      "Papà crederà a me. Tu butta subito il fiore"
      E lei lo buttò, ma mi riportò subito a casa senza rivolgermi più la parola. Ma raccontò tutto a papà. Venne a trovarmi a letto.
      "Non devi dire le bugie, Enzo. La mamma non bacia nessuno"
      Quella sera feci fatica ad addormentarmi, ma il signor Anselmo non lo incontrammo più nei giorni successivi.

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  4. Questo tuo racconto è terrrribile!!!
    Hai descritto cose che quand'ero piccolina come te mi chiedevo sempre, "ora" ho finalmente compreso (scherzo né)...ahahahahah...a me neanche da grande mi spiegavano niente, ho scoperto tutto da me!!!
    Poveri bimbi!!! E poveri genitori, soprattutto quando devono rispondere agli infiniti "perché?".
    Comunque bello sapere un pochino di te. Baci.

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  5. Anche io ho dovuto scoprire tutto da me, con le contorsioni della interpretazione personale che ti puoi immaginare. Non ho mai capito a fondo fino almeno a dodici, tredici anni come funzionava la storia della donne che vanno a prendere i bambini in un posto dove viene loro dato da mangiare un impasto di "sbora" e qualche specie di farina rara che non si trova in negozio, ma insomma, sì certo, appunto, si dice, ma guarda un po', e per farla corta vabbè non l'ho capita tanto ma va bene lo stesso.
    Eravamo veramente dei poveri bimbi, mai soddisfatti delle risposte ambigue dei genitori, che si illudevano, allora come adesso, che bastava raccontargliela a collo storto perché se la bevessero, mentre invece non facevano altro che scatenare una serie di reazioni a catena, dove le domande si sovrapponevano alle domande e le risposte erano forzate al massimo e mai sicure, risposte che ci si dava da soli, al massimo con l'aiuto di ragazzini come noi che ne sapevano quanto noi e quindi il risultato era un immenso casino primordiale.
    Bello però, ci tornerei.
    Nella mia risposta al commento della tua sorellona ci ho aggiunto qualcosa carina, un altro pezzetto della mia infanzia, che potrei intitolare "l'antipatia preconcetta per tutti i conoscenti di sesso maschile di mia mamma". Puoi apprendere ancora qualcosina carinissima di me piccolo, guardiano del faro.
    Ciao sorellina di Maria.

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  6. Ho letto...ho letto...gelosissimo al massimo della tua splendida mamma e tuo padre super geloso di lei!
    Grandiosa famiglia direi. Baci.

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    1. Fino a tre o quattro anni ero supergeloso di papà. Dormivo ancora nella loro camera, andando a letto alle otto quando venivano a letto loro qualche volta mi svegliavo. Allora immediatamente attaccavo una litania. "Mi fa male la pancia, ahi ahi ahi, mi fa male la pancia". Dopo un paio di minuti mia mamma si commuoveva e mi portava nel lettone, mettendomi dalla sua parte, ma io immediatamente la scavalcavo e mi mettevo in mezzo, tra lei e papà. Qui cominciava la seconda litania. Puntavo piedi e mani su papà e cercavo di spingerlo via. "Vai al cesso papà, vai al cesso", e a mia madre "vieni qui mamma, vieni qui", e a lui "vai al cesso papà". Mio padre ci si faceva le matte risate. Anche mio figlio Alessandro era gelosissimo di me e cercava di stare sempre in mezzo, ma io a letto tra noi non ce l'ho mai voluto e non sono mai andato al cesso. Ma nemmeno il mio papà ci andava mai.
      Ero molto invadente da piccolo, lo so; mi approfittavo dell'immenso bene che mi volevano tutti. I bambini sono tutti egoisti, e rompicoglioni.
      Ciao, sorellina di Maria. Baci.

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  7. Ciao Vincenzo!!
    Mi fai morire...ahahhahahaha fortunato te che nonostante le sberle ti sentivi libero di esprimere le turbolenti e tempestose storie ormonali,a casa mia la libertà di intraprendere tali argomenti era negata anche solo un accenno veniva subito depistato probabilmente era la conseguenza dell'educazione acquisita dai miei genitori,oppure riservatezza? mah non l'ho mai capito e fortunatamente non ho acquisito io che con due figli maschi di domande a cui rispondere ne ho avute né ,,,
    Buon fine settimana bell'homo :)))
    Baciiiii

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    1. Guarda che io di storie ormonali non avevo la più pallida idea, mi preoccupava la nonschalance con cui la mia tanto apprensiva mamma liquidava la faccenda.
      Due parole, catarro intestinale e via col vento. Non mi quadrava con le sue paure per un semplicissimo raffreddore, e tieni la cocca chiusa -quando era in buona- e chiudi la tua boccaccia, quando invece era incazzata, non con me ma con me si sfogava mi pare; e non correre troppo che poi sudi e io non ho la maglietta da cambiarti, quando uscivamo, e allora portava il Boro Talco Roberts e mi ci infarinava come un pesciolino; poi guai ad avere una febbricola da 37,6, mamma li turchi! Mi chiudeva in camera e mi teneva uno o due giorni a letto, finché non ritornava la temperatura a 36,5. Una tortura, ma poi mi viene così di frequente il catarro nella vescica e lei non batte ciglio. Dico, non c'era bisogno di avere fatto un corso accelerato dall'OVRA, la CIA dei fascisti per capire che qualcosa sotto sotto puzzava.
      Ai miei figli ho detto tutto fin dall'inizio, fin dalle prime domande, da quella classica "come nascono i bambini" si capisce. Così e così. E non ci capivano nada e allora avanti coi disegnini, e non capivano nada de nada, ma io insistevo e insistevo. Mai raccontato castronerie, tipo quelle che raccontavano a me, del microscopico Enzo che stava dentro una rosa e che lei e papà avevano cercato per tante notti (perché di notte che non si vede un tubo?) e poi, una volta trovato, aveva mamma bevuto con un sorso di acqua.
      E mio cugino Umberto, molto più prosaico mi correggeva ogni volta che glielo raccontavo "non era una rosa era un cavolo" e giù botte perché gente un conto è una rosa bella fresca un conto un cavolo.
      Cavolate del genere non ho mai fatto e me ne vanto.
      Buon fine settimana bella femmina:)))
      Bacioniiii.

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