martedì 17 maggio 2016

IL TROMBONE USATO

Vicino alla mia casa il domicilio coatto del trombone usato,
tutto lucido; la porta è aperta, nemmeno uno scalino,
ecco il trombone sdraiato in esposizione
sopra una poltrona
rossoviola
a centro sala.

(Ho il feroce bisogno di toccare il trombone
tutto solo, lucido, antico nella grande sala:
una mattina, alzatomi un'ora prima, 
lo farò, lo sento)

Toccare quel trombone, farne uso, può diventare
il senso di una vita, se il trombone è il manifesto
di una vita esistita soltanto nel suono di poche note,
forse di un'unica nota dell'intero spartito. 

Qualcuno un giorno ruppe un vivere di monotona miseria
portando il lucido trombone in una piazza antica,
molto grande, con grandi palme verdi sotto il sole.
In un palco ligneo eretto al centro, una struttura
poggia di segmenti metallici prefabbricati a forma
di piramide mozza. Là, sulla vetta,
la poltrona rossoviola, lo stallo del trombone,
regalmente sola. Sedutovi, sfiorando leggero lo strumento
come un'amante giovane, l'uomo attese che il gesto
ampio del maestro si rivolgesse a lui,
per isolare nei frenetici ritmi lo squillo
angusto ma possente del suo lucido dio.

Non è bello indagare quante e quali le note
liberate nel cielo. Resta una fotografia in bianco e nero
che di tutti fissa solo un momento, ma l'eterno,
nello spazio inalterabile del tempo:
le gote del suonatore gonfie e tese sotto
lo spasimo dei polmoni ardenti,
e il lucido trombone, trafitto dal lampo del flash,
sfolgora nella notte che è già scesa.

Di quella unica foto ricoprono le pareti
della sala-esposizione dieci, cento ingrandimenti:
tutta la sala è piena di quell'attimo,
un enorme blow up di tasti scintillanti,
come di stelle è pieno l'universo.
Da allora sosta la vita ferma del trombone
sulla poltrona rossoviola
eternamente.
Nessuno sa cosa ne è stato del suonatore,
né chi egli veramente fosse:
a me, che ho bisogno di toccare il trombone almeno una volta,
non importa sapere quel che è successo all'uomo
che un giorno lo eternava sulla piazza.



Io, che ho cominciato a vivere raspando
mattoni cariati, vulve d'albero, terre arse,
ho respirato i veleni della notte e del giorno
ruminando pane secco e mele sempre acerbe;
e nelle tasche palline di vetro colorato,
il viso come cariatide di terra
graffiato dalle mie unghie squamate
sulla calce del soffitto;
solo mattonelle scrostate nella nostra vecchia cucina,
la cristalliera nera già da tempo venduta,
odore di minestra con cipolle,
fette di pane vecchio, spalmate di lardo
e abbrustolite sulla cenere ardente;
nessun trombone lucido da usare.

Io, per antica miseria,
(assuefazione, arte dei poveri)
costretto a mimare di nascosto ciò che agli altri
era consueto fare sotto luci e tra specchi brillanti:
mangiare bene e bere vini trasparenti per esempio,
calzando scarpe lucide
e guanti di filo sottile.
Ciò che se ne guadagna è un estremo pudore
nel rivelarsi agli altri,
e poi l'istinto di distillare in segreto
odori e suoni, e gesti non visti,
ma intuiti.
L'olfatto e il senso degli occhi così acuiti
esprimono la condizione dello sforzo fisico:
alzi con una forza da trecento cavalli la bottiglia
adocchiata, invece è
di plastica,
non
pesa
niente;
annusi l'aria con le narici dilatate,
e lento, attraverso il mormorio di cento erbe estranee,
ti penetra ancora l'odore di muschio e di salsedine
della tua prima spiaggia precoce, almeno credi
che sia quella, o lo speri.



La prima spiaggia, precoce o l'ultima, obsoleta, dove
l'aquilone rosso svetta intangibile.

Trovate a stento nella vecchia città le colle e le carte
leggere colorate, domina il rosso;
è costruito frettolosamente, ma è perfetto il volo, antica scuola
nel mio cortile: vincevo ogni gara coi resti
degli altri.
Sulla spiaggia che è solo di noi due,
lasciato libero l'aquilone rosso di conquistarsi
il suo raggio di cielo,
restiamo soli al mondo io e  te,
Elena, bionda e chiara,
subito lontana una vita da me,
abbracciata al mio fianco, leggera foglia.

Non ho certo bisogno di vomitare tutta la terra che ho masticato
per sollecitare dalla mia memoria la più
strafottente e falsa autobiografia.
Resta inchiodata al palo di partenza
la sensazione di essere figlio a una madre
e a un padre morti, fratello ad un fratello
morto anche lui.
A te, Elena, forse nemmeno un ricordo,
donna di sabbia: io resto ormai in equilibrio per te
come la punteggiatura di un discorso dimenticato.



Contemplarsi come un discorso dimenticato,
come un meccanismo superato dal progresso del tempo,
un oggetto antico e polveroso sopra un mobile vecchio.
Conoscersi così sempre più a fondo,
sempre più nudo, ogni giorno più inutile,
e sentirsi morire lentamente da vivo.

"Abdicare da vivi, prima di sentirsi morti."

La predica di un frate matto nella chiesa dei Cappuccini
si è conclusa con un'esortazione alla rinuncia.
Attraverso le parole disperate di un quasi uomo
che al suo dio presunto tutto ha delegato,
i rossori dell'anima turbata, le oscenità
del sesso, le tormentate domande che mai pose,
e adesso sono antiche, esco da quella chiesa intatto
peccatore, inguaribile e convinto
che il mio peccare è la mia unica forza,
e nel peccato più profondo e osceno
sublimo la mia anima.
Non c'è valore a bestemiare dio senza conoscerlo,
dar fuoco alle sue croci, ridurre in cenere
i suoi templi solenni, tutti quanti i suoi altari.
Ma guerre saranno ancora da combattere:
a milioni strappati i fiori dagli occhi degli uomini
morti, a milioni prosciugati i seni di vedove impietrite,
di madri urlanti come cagne nere di notte.
Guerre verranno ancora combattute
per chiudere la bocca a questo dio
e agli altri che gli si alterneranno in eterno sacrilegio.

L'eterno sacrilegio commeso da tutti i grandi
sacerdoti, e pontefici, e predicatori e profeti,
che di millennio in millennio,
adoratori ignobili di violenza e di sangue,
tramandarono in tutte 
le latitudini e per tutti i venti
e per arie e mari e terre un testamento infame.
Il culto del nuovo dio naque ogni volta piantandone
i sigilli sulla terra macerata dal sangue
dei seguaci del vecchio dio.

Come lotta del bene contro il male e trionfo del bene
fu mistificato l'eterno conflitto cui soggiacquero
tutti i migliori, ed i più giovani,
e le menti più belle di ogni generazione.
Ma nessuno dei troppi Vaticani a Roma, a Medina,
a Mosca, New York, Gerusalemme o Berlino osa spiegarci
da quale parte, dalla parte del bene o da quella del male,
sta il vero dio:
ed è così che sarà sempre possibile abbattere
il dio vero che aveva le armi sbagliate, e seguire il dio
falso e bugiardo in possesso delle armi giuste.

Le storie alterne e opposte di ogni antico conflitto,
cantate dai poeti, vengono soppiantate
da storie nuove, sempre più cruente,
di successivi conflitti per eccitare altre generazioni
meno equilibrate e pacifiche, pronte
all'esaltazione e alla violenza,
disposte poi a dimenticare in fretta.

Oggi sappiamo che le nostre vecchie e sante storie
venivano accatastate e appiattite sotto gli intonaci
della memoria della generazione al comando,
per emergere poi da altre storie più complesse
e antiche; oppure, più propriamente, liberate
per loro naturale movimento. S'intende
che così precedevano i tempi, e di nuovo erano pronte
per essere appiattite sotto nuovi mattoni di nuove
generazioni, quella che veniva a trovarsi al comando, ben inteso,
e quelle che seguivano, immediatamente future.
Non vale la pena di chiedersi di quali storie
si stia parlando, tanto un inventario
non verrà mai fatto, né fu fatto nei tempi,
è cosa nota.



A questo punto qualcuno (spesso è necessaria la presenza
di questo qualcuno anomalo, presenza corporea,
ma intangibile), qualcuno, dicevo, inizia il lavoro di scavo
e mette a nudo le tavole delle storie più recenti,
di quelle che crede che siano le più recenti:
ma solo la parte che gli spetta,
che spetta anche a noi come elementi della generazione,
si lascia toccare, svelare o piuttosto non omettere;
l'altra parte è ben nascosta. È certamente la 
percentuale più alta. Più tardi ancora qualcuno,
vedi sopra, è più risoluto e insiste: ritrova
le storie di cui dicevamo, ed è convinzione
generale che quelle siano tutte le storie di tutta
le generazioni. Invece si è lontani anni luce dal principio
della prima storia della prima generazione,
e di tutte quelle seguenti.

E si è continuato così dall'era di Cristo e dall'era
dei cento Cristi che gli fecero strada,
sempre con le storie vecchie e meno vecchie
appiattite oltre la generazione,
dietro la generazione, con la generazione.



Ma torniamo a parlare ancora una volta dell'ultima storia:
torniamo a parlare del trombone usato,
da usarsi con parsimonia,
e di me, che ho bisogno di toccarlo di mattina
e sento che lo farò.
Certamente in tutto questo tempo
terra sbavata si è arrotolata su di me,
dentro di me, coniato in tubo da suoni di tamburi;
me, tromba di me,
edificata cattedrale di me, convento di me,
lago chiuso, acqua morta di me;
chiodo incarnito nel palo di partenza e di arrivo di me.
Tutto questo non è pazzia di me,
né palinodia, né memoria autocritica, no, certo;
solo terra sbavata sopra di me
e forse anche dentro di me.

Direi di nuovo: forse. Mai lasciarsi prendere la mano.
Il trombone è lì in esposizione,
(me in esposizione permanente),
e formare una squadra di tromboni da esposizione
sarebbe possibile se un organizzatore capace volesse
darsi da fare e procurare venti
o venticinque sale chiuse con poltrone
rossoviola, solo rossoviola, mai
interpolare altri colori;


mai coniare un diametro di esecuzione diverso
da quello già trovato sul posto;
e poi giacere finalmente morente a fianco del
trombone, al di fuori però della squadra tromboniesposizione,
perché ciò è più aderente ad un'idea di sigillo
finale, che in ottanta anni di monologhi
dolorosi ho innestato nella terra di me,
scavata da me e per me:

e questa dovrebbe essere una fine degna di me,
ma appunto per questo, continua
forse anche senza di me.


************




















6 commenti:

  1. un riassunto complesso tra storia vissuta e storia del mondo, sei sempre una forza Vincenzo...confesso che alcuni punti non li ho tanto compresi, però ho sentito un brivido di terrore, come se il trombone fosse l'ultimo canto del cigno...forse sbaglio e sono solo allucinata dalle tue tante parole inanellate perfettamente, ma io sono imperfetta e sicuramente ho letto, sbagliando.
    Non farmi scherzi Trombone che sei...e fregandome del pudore e del pubblico vorrei dirti che sei una bellissima persona e ti voglio bene.
    cià Vicenzo.

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    1. Tu non sei imperfetta, sei sensibile mentre io certamente sono complicato, per questo hai sentito un brivido di terrore. Per aiutarti ti dirò che tanti anni fa mi sono trovato per caso nell'appartamento di un signore anziano, che in gioventù faceva parte di una banda cittadina. Suonava il trombone. facevano concerti. Aveva le pareti tappezzate da ingrandimenti del suo trombone mentre lui, con le gote gonfie come una grossa rana, ne strizzava fuori alcune note. Mi aprì una porta con fare misterioso: dentro c'era una poltrona e sopra il mitico trombone ormai tranquillamente a riposo. Mi è rimasto il ricordo di quella visita e della visione del faccione beato del vecchietto mentre rimirava il suo prezioso strumento. Mi è sembrato di intravederci il senso di una vita, penosamente monotona, sicuramente poco significante per l'Umanità, dove quel trombone strimpellato riusciva, solo lui e solo nel ricordo, ad aprirgli le porte del paradiso.
      Il resto è venuto come conseguenza, forse dovuto alla mia fantasia pluriconvessa e pluriconcava, ma questo è l'uomo che sta scrivendo.

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  2. Eppure... S. è sensibile e lo sono anch'io.
    La storia del trombone mi sembra una metafora, tutto il resto un riepilogo delle battaglie vissute.
    Mi fai venire un nervoso...
    Cri

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    1. Beh, certo che sei sensibile. Chi parla con gli uomini e coi cani deve esserlo per forza. Tanto sensibile che hai capito subito che si trattasse di una metafora, nella quale sono circoscritte le battaglie vissute, quelle vinte e quelle perdute. Ma perché ti faccio venire un nervoso...grande tanto così?

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  3. Ciao vecchia quercia, le tue radici forti affondano in quel terreno che è la tua vita che si intreccia con la vita del mondo, una vita che ha visto tramonti e albe alternarsi, una vita che ha udito i suoni più melodiosi... Vedi di lasciare il trombone nell'armadio per molto tempo ancora!
    Un abbraccio

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    1. Ciao giovanissima quercia. È un po' la dote che portiamo tutti l'intreccio delle radici della nostra vita con quelle della vita del mondo. Noi qui siamo nati e qui moriremo. I trombone lo lascio nell'armadio. Sto imparando da te e da quelli come te, uomini e donne, come si possa fare. Mi sono detto che se ci riesce il mio amico Xavier che ha ventanni, posso riuscirci ancor meglio io che ho ventanni quattro volte.
      Un abbraccio.

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