martedì 8 febbraio 2011

I MIEI PRIMI GLORIOSI 77 ANNI

Oggi si compiono i miei primi 77 anni.
Mi lascio prendere e trasportare dal fascino della matematica spicciola, ovvero -parafrasando Paolo Giordano- la compagnia dei numeri doppi.
L'ultima volta era un 66. Correva l'anno 2000; correva perché si stava concludendo il secondo millennio. Alla fine aveva il fiatone, ma non inciampò mai.
Prima c'era stato un 55. Eravamo approdati nel 1989, un anno di ripresa da eventi voluti e non voluti, che avevano lasciato il segno.
Ancora prima un 44, nel 1978. Correva anche qui qualcosa, ed era il TIR che guidavo io per le strade d'Europa. Ho nostalgia di quei tre anni: al volante di un bestione lungo 24 metri, un otto assi di 1600 quintali di tara e pieno carico, 9200 cc e 1400 cavalli, ti senti Dio. Io mi sentivo il dio delle strade d'Europa da Lisbona a Przemysl, confine dell'Unione Sovietica, 280 chilometri a Est di Cracovia.
Sempre prima un 33, nel 1967. A Roma, retour de Milan; abitavo a Viale Jonio, con tre donne deliziose che mi aspettavano a casa: due mi chiamavano "papà"; una mi chiamava "Enzo matto", e poi in un altro modo che non sta bene riferire Urbi et Orbi.
Col 22, nel 1956, accanto a me c'era un'altra donna, il cui ricordo mi rovinerebbe la giornata.
Finiamola qui.
Anche perché col numero 11 si sta nel 1945, anno di rinascita, dicono oggi sul Terzo nel programma "Correva l'anno", e io gli darei una martellata sulle palle. Rinascita un corno! Civitavecchia era un cumulo di macerie, della nostra casa rimanevano in piedi tre muri, uno era quello rosa della cucina. Poi basta. Mia madre non si era ancora sollevata di un millimetro, e non si sarebbe più riavuta per il resto dei suoi giorni da un dolore inumano che l'aveva piagata.
OK! Sempre vinti dal fascino della matematica spicciola si potrebbe raddoppiare, dividere, sottrarre, moltiplicare.
Così 7+7 fa 14: il mio primo anno di ginnasio; le mie incomprensioni con un professore di Latino e Greco giovanissimo -22 anni- e gasatissimo, destinato a diventare "lo mio maestro di vita".
L'anno in cui potevo crepare per un attacco di appendicite perforata, che solo mio zio Aldo prese sul serio. Mi infilò dentro il sidecar e mi portò all'ospedale qualche ora prima che l'infezione esplodesse in peritonite. Allora se ne moriva senza scampo perché la penicillina era ancora negli U.S.A.
7-7 uguale a zero; quindi ante nascita, quindi mobilissimo nel pancione, guizzante nel liquido amniotico.
7:7 uguale a uno. Un anno di vita e tutti intorno a me, al maschietto nuovo nuovo della famiglia Iacoponi. Tutti a guardarselo beati come i pastori nel presepio.
7x7 uguale a 49: -1 dal mezzo secolo, nel 1983, anno di lunga attesa senza sapere di che cosa.
Finito qui? Eh no! Perché il 77 è un numero fatidico, che ricorre nella mia vita ben due occasioni, nelle quali ho salvato la pelle miracolosamente.
(Oh mio Dio! Ho detto fatidico: all'inizio del mese ho già usato questo aggettivo in un post e mi è venuta addosso una montagna. Speriamo bene questa volta).

La prima occasione il 26. 8. 43.
Se si fa la somma delle cifre di quella data si ottiene infatti il numero 77.
Quel lunedì mattina il sole sorgeva da dietro i monti della Tolfa, allungando le ombre di Civitavecchia su un mare calmo come un biliardo.
Ero arrivato il giorno avanti da Valentano -dove la mia famiglia era sfollata dopo il primo bombardamento aereo del 14 maggio- a cavalcioni sulla canna della bicicletta di mio padre. Un viaggio epico, con lui che pedalava gagliardo e il vento tutto in faccia a me. 52 chilometri. Dai papà che sei grande come Gino Bartali!
Casa nostra era ancora in piedi, ma lesionata e inabitabile. Così avevamo alloggiato a casa di zio Aldo, che abitava in collina, lontano dal centro. Una caciara immensa coi due miei cugini per il resto della domenica, e la notte tutti e tre in un lettone a ruzzare, a darci spintoni e a spremere fuori puzze io e mio cugino Umberto, per fare rabbia a mia cugina.
Il mattino dopo, verso le nove, di nuovo a cavalcioni della canna della bici perché si dovevano prendere alcune cose da casa nostra e poi via di corsa a Valentano per arrivare prima che facesse notte.
Dalla prima volta a maggio le fortezze volanti americane non erano più venute a buttar bombe.
"Non vengono più -diceva la gente- il porto è vuoto e non ci sono più soldati in città"
Tutti pensavano che la guerra fosse finita per i civitavecchiesi, e la maggior parte degli sfollati era rientrata in città.
Così papà se la pigliò un po' comoda.
-Vieni, ti porto al Pirgo.
Lo stabilimento balneare della Civitavecchia bene.
-Faccio il bagno, papà?
-Bagnati fino alle ginocchia.
Nemmeno una mezzoretta. Poi si va via e si imbocca la strada del ritorno. Da Viale della Vittoria a Viale Garibaldi, arrivati davanti al Grand Hotel attaccano a suonare le sirene d'allarme il loro suono lugubre e agghiacciante.
C'era sulla destra una strada in salita, in cima alla quale avevano costruito un rifugio antiaereo, un cantinone di cemento armato interrato profondamente nel suolo con una scala ripidissima di accesso.
Papà si alzò sui pedali come Fausto Coppi e schizzò su arrivando tra i primi. Mi aiutò a scendere in quella spelonca semibuia tenendomi le mani sulle spalle. C'era un inferno di gente sudata e morta di paura. Nel silenzio atterrito di quella moltitudine si poteva udire scendere dall'alto il rumore sordo e monotono dello stormo di aerei: come un alveare di calabroni in movimento sopra di noi.
-Passano, disse uno su in alto.
-Vanno via, vanno a Viterbo -disse un altro con voce stentorea.
-Se ne vanno, se ne vanno -gridavano ormai in tanti.
Sembrava fosse cominciata la festa di Santa Firmina, la patrona della città.
Parlavano tutti, ridevano tutti.
Di colpo echeggiò il suono lungo della sirena del cessato allarme.
Venimmo su gradino per gradino a fatica, perché la scala era ripida, gli scalini assai alti e la gente non aveva fretta.
A me scappava la pipì.
Sempre per il fatto che io mi vergognavo a farla dietro a un albero se qualcuno mi guardava, e lì c'era una folla che sciamava fuori da quel rifugio, feci una corsetta fino in fondo alla discesa dove avevo adocchiato un riparo che mi avrebbe coperto alla vista della gente. Era un muretto che scavalcai e mi trovai in una specie di orto. Mentre facevo le mie cose vedevo papà che mi cercava. Si voltò e tornò indietro nel rifugio. "Non mi vede e crede che io stia ancora a salire per quella scala, pensai; adesso lo raggiungo". Ma la pipì non finiva mai.
Il cielo era pieno di lampi: c'era qualcosa che brillava al sole lassù nell'azzurro, come i fuochi di artificio. S'erano fermati in tanti e stavano tutti col naso per aria a guardare quel luccichio che ci veniva addosso.
Nessuno se n'era ancora reso conto, ma erano le fortezze volanti americane.
Lo stormo doveva aver virato sopra il lago di Bracciano ed era tornato indietro per sganciare le bombe a casaccio, all'americana, alla dove piglio piglio, e poi tirare dritto e tornarsene a casa sua, in Tunisia, da dove era decollato.
Mentre tutti i nasi stavano rivolti all'insù arrivarono a volo radente i caccia, che precedevano e scortavano lo stormo. Mitragliavano case, muri, aria e cristiani; mitragliavano tutto quello che si muoveva e che stava fermo.
La gente scappava come topi davanti al fuoco.
Urlavano tutti, correvano tutti.
Tutti, meno io.
Appena finito il mio bisogno e rimesso a posto le mie cose erano arrivati i caccia, poi il fugone del popolo impazzito di paura.
Saltai oltre il muretto e mi trovai sulla strada, ma non riuscivo a muovermi di lì. Qualcuno o qualcosa mi teneva inchiodato davanti a quel muretto, e ormai non c'era più nessuno per aiutarmi: solamente un infinito tragico silenzio al suolo, sopra il quale stava sospeso il mormorio dei calabroni americani.
Mio padre si era finalmente accorto che non stavo dentro il rifugio. Uscì fuori proprio mentre cominciavano le prime esplosioni nella parte più alta della città.
Lo vidi corrermi incontro, ma vidi anche le ombre dei caccia.
Mi urlava qualcosa, ma io continuavo a seguire le ombre dei caccia.
Ne arrivò uno, più basso degli altri. C'erano fiammelle che vibravano sulle sue ali.
Mio padre si tuffò come un rugbysta: mi placcò e mi trascinò qualche metro lontano di lì, nascondendomi sotto il suo corpo, mentre intorno esplodeva tutto con sibili laceranti.
Rimanemmo così a ridosso del muretto, mentre sulla città si scatenava l'inferno.
Avevo gli occhi a livello del suolo: vedevo solo il fumo nero delle esplosioni e la polvere, una nuvola enorme, sollevata dai crolli delle case, dei palazzi del centro, di un'ala del Grand Hotel.
A un tratto, forando la nube di polvere come sparato da un fucile, schizzò fuori un ragazzo molto molto giovane. Correva verso di noi, verso il muretto. Correva a piedi scalzi, la camicia spalancata come una vela gonfia dietro la schiena, il petto nudo.
Una raffica, un tonfo.
Planò sul dorso con la testa a qualche metro dalla mia. Non si mosse più.
Qualche minuto dopo l'inferno era finito e ne cominciava un altro: c'erano feriti lì intorno, tanti feriti; qualcuno si lamentava, qualche altro nemmeno si muoveva più.
Papà si era alzato e guardava il ragazzo scalzo abbattuto vicino a noi.
-Non guardare! Mi intimò con un grido e mi girò la faccia.
Ma io l'avevo visto il mio primo morto.
La pallottola dell'aereo americano gli era entrata dalla schiena, dove aveva fatto un buco, ed era uscita dal davanti. Ma il cosiddetto foro di uscita non c'era, non si vedeva: il torace era spalancato come un grande libro aperto a metà. Si vedevano solo costole, come quando appendono i maiali squartati.
Non c'erano polmoni, non c'era il cuore, non c'era più niente: solo ossa e sangue che già coagulava.
Il mio primo morto.
Papà gli chiuse gli occhi. Io non gli chiesi nulla; non ne parlammo mai più. Ma io sapevo che se lui non avesse fatto il rugbysta accanto a quel ragazzo sarei rimasto anche io.

La seconda occasione si verificò al Km 77 della E40, un sabato sera sul tardi del mese di aprile 1977.
Qui il 77 torna due volte, come si può vedere.
Il bello di lavorare nella più grande ditta europea di Trasporti Internazionali -2500 TIR in giro per l'Europa ogni giorno- era che quando un sabato sera un autista staccava per una settimana di riposo dopo 21 giorni filati seduto in cabina, aveva a disposizione un pernottamento pagato in un Hotel Garni a 3 stelle, e l'indomani un auto a noleggio per tornarsene a casa.
Parcheggiai il mio SCANIA nella immensa Hof della nostra filiale di Hannover, dove un altro autista lo avrebbe messo in moto la sera dopo alle 22.
Rifiutai l'albergo; mi piaceva guidare di sera tardi e di notte. Dall'ADAC presi in affitto un Golf sport giallo oro con 150 cavalli. Piglia i 200 in mezzo chilometro e tiene la strada da Dio.
Mezzora dopo schizzavo nel traffico sonnacchioso dei ritardatari cronici del sabato sera, e dei rompiballe appena svegliati che si precipitavano nelle discoteche, in una autostrada sgombra di TIR.
Giù a tavoletta sopra una macchina che ti chiede solo di spingere a fondo il "Gaspedale".
C'era nebbia, ma si vedeva bene, almeno 100-150 metri, di più non mi occorreva.
Mi viene fatto di pensare che proprio su questa autostrada un anno prima era avvenuto l'incidente per nebbia più tragico della storia automobilistica tedesca: 39 morti e una settantina di feriti.
-Non ci sará questa volta una pazza che entrata in un banco di nebbia pianta la macchina a fari spenti e portiere spalancate in mezzo alla strada e scappa nei campi -mi dico a voce alta- non può succedere due volte.
La mia radio è spenta, come sempre. Quando guido odio ascoltare musica; quando guido io mi parlo. Mi pongo domande, mi do le risposte alla Marzullo. Mi racconto storie. Mi ricostruisco momenti brutti della mia vita, dandogli un altro corso, un altro esito. Vivo una vita che non c'è, ma è tutta dentro di me. Mi piace un sacco farlo. Guiderei tutto il tempo da solo proprio per questo.
La nebbia a tratti è intensa, aumenta con l'avanzare della notte.
Sono sceso a 170. Adesso i 200 te li puoi scordare: una volta sceso di velocità non c'è verso di tornarci più, anche se hai un cuore di leone come il mio.
Ci sono macchine lentissime sulla corsia interna; morti di sonno, morti di paura. Ho abbandonato da tempo la corsia centrale, sto su quella veloce, ma non riesco a tirare il Golf oltre i 120, dove sono sceso perché un lumacone non mi dava strada.
Tento di rialzare la media oraria ma non ci riesco. Colpa di un tappo psicologico: se si pensa bene la strada che si vede è sempre la stessa, 50-60 metri, sia che si vada a 70 orari sia che si vada a doppia velocità, ma non si riesce a spingere oltre i 70. Colpa di questo tappo psicologico, e colpa di questo stronzo che mi sta davanti sulla corsia veloce a meno di 80. Lampeggio, bestemmio, suono, ma lo stronzo scende a 60. Rilampeggio, ribestemmio, risuono e finalmente lo stronzo su Mercedes 240 mi lascia strada.
È una stronza di almeno 60 anni che guida col muso incollato al volante. Ti pareva!
La sorpasso poco prima della fine di una salita e le mostro il dito.
Dovrei invece baciarle i piedi perché la stronza mi ha salvato la vita.
Arrivo infatti in cima alla salita molto lentamente, perché ho perduto tutto l'abbrivio.
Scollino e davanti a me, a poche diecine di metri, un muro di lamiere, di auto che si sono schiantate e accartocciate le une alle altre. "Massenkarambolage", collisione a catena, disastro.
Freno a morire e l'auto mi si dispone di traverso a cavallo della striscia di separazione delle due corsie esterne.
Non ho il tempo di guardare quello che è già successo alla mia destra perché dalla parte sinistra, dall'alto scendono altre macchine in frenata con al volante gente come me, in preda al panico.
Un Volvo si ferma a qualche metro da me; un Mercedes lo tampona e me lo scaraventa contro, ma qualcosa devia il Volvo che scorre dietro il mio Golf e lì resta, senza sfiorarmi la carrozzeria.
Per un attimo sembra tutto finito, ma ecco la mia morte: ha il muso e i fari di un grosso BMW. Il guidatore sembra non aver visto niente, perché scende velocissimo. Il muso del BMW punta dritto verso i miei occhi.
Io so adesso cosa si prova quando si è sicuri di morire: assolutamente nulla. Ti distacchi dal mondo, dalla vita, non pensi a niente in preda all'apatia, alla rassegnazione. Non riesci a togliere gli occhi da quella cosa che ti vuole morto.
La BMW non si ferma, non frena, accelera: urta contro qualcosa, si impenna, si rovescia e passa col suo tetto sopra il tetto del Golf strappandone l'antenna radio e si infila dentro un Passat a qualche metro da me con un boato orrendo.

Quando la Polizei arriva in massa con pompieri, ambulanze, medici di primo intervanto, due elicotteri, io sono in piedi che giro intorno al Golf. Non c'è un graffio, è solo impolverato.È l'unica auto praticamente illesa in un mare di lamiere contorte, sembra calata dall'alto con una gru a spettacolo finito dentro l'unico punto di strada libero.
Un Polizist sta girando intorno alla macchina illuminandola con la sua torcia elettrica.
-Offizier -gli chiedo- dove ci troviamo?
-Al chilometro 77 della E40, direzione Frankfurt am Main.
Continua a girare intorno al Golf; si china, osserva, illumina, tocca.
-È suo il Golf?
-Sì, è il mio.
-Mein Gott! Aber Sie haben Glück gehabt.
Lei ha avuto fortuna, mi ha detto.
È educato come tutti i poliziotti tedeschi; fossimo stati a Roma mi avrebbe detto:
-A morè, ammazza che culo che ciai.





8 commenti:

  1. intanto un grosso augurio, segue un sentito ringraziamento per i bei racconti di vita di questo post: al di là dei rischi corsi è un racconto coinvolgente, affascinante ma quel che più conta è che è storia vera. Non ho mai avuto la fortuna di incontrare nessuno che abbia vissuto così da vicino una guerra...almeno fino ad oggi. Grazie per questa importante memoria

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  2. Sei un grande, Enzo! Io con il post per il mio compleanno mi sono dilungato, ma tu rischiavi di compierne 78 prima di finir di scrivere questo per i 77... :D
    Scherzi a parte, l'ho letto con molto piacere.
    L'unica cosa in cui mi sento più saggio di te, che non condivido, è l'esaltazione della velocità e lo sprezzo per i prudenti, come se per schiacciare un piedozzo su un acceleratore ci volesse chissà che cosa... (io questa follia l'ho avuta in me solo da neopatentato, ma per fortuna ho avuto i miei angeli custodi o quel che diavolo erano...)
    Pensa che una volta ero in macchina, in Sicilia, autostrada deserta, con un vecchio siciliano residente in Belgio. Ebbene, autostrada, dicevo, deserta, corsia di sorpasso libera, eppure ogni volta che "gli toccava" oltrepassare uno più lento questo qui lo insultava, faceva gesti, diceva con disprezzo "questo stronzo che non cammina" (cosa comicissima, per me, poiché i siciliani dicono camminare invece di andare veloce!), se la macchina sorpassata era grossa e potente s'infuriava proprio, diceva "questo stronzo ha la macchina per camminare e non cammina", una volta ne affiancò uno e indicando l'orizzonte avanti a noi gli gridò in faccia: "Io cammino!"
    Be', perdonami ma ogni volta che ci ripenso, oltre a scompisciarmi per "lo stronzo che non cammina", non posso non considerare quel siculo-belga una persona un po' idiota...

    Ma basta divagare: AUGURISSIMI, AMICO CARO!
    Che i tuoi prossimi 30 anni possano essere ricchi di felicità e soddisfazioni! Slow, naturalmente. :D

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  3. Gran nel post per i tuoi primi 77 anni. Troppo lungo (scusa la critica amico mio) ma bello.

    TANTISSIMI AUGURONI ENZO. Festeggiali alla grandissima e quando brindi fai finta che io sia lì al tuo fianco. Salute nonnetto (permettimelo in questa occasione) Nerazzurro. :)))

    Ciau ciau.

    :)

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  4. *Andre senza accento, bellissimo (già detto, mi ripeto, è l'inizio del rincoglionimento). Hai ragione tu e tutti gli altri: mi è venuto lungo, proprio perché mi ha coinvolto di nuovo. Io tengo questi ricordi molto ben nascosti, quando ne rimuovo il tappo escono fuori prepotentemente e non me ne libero più. Mi ci sono rinfilato, soprattutto in quello del bombardamento. Sono cose che non si dimenticano più.

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  5. *Nik. Sai che l'ho pensato anche io che potevo finirlo per il compleanno del 2012?
    Mi sono lasciato trascinare un po' troppo, forse avrei bisogno ogni volta di un buon editing, che porterebbe via dal testo almeno la metà.
    Riguardo il piedino-piedone sul pedalone del gas è un vizio che non mi sono mai tolto. Il fatto è che finora ho avuto culo, sono stato bravo, forse sono una ottima guida, non lo so, ma soprattutto amo il rischio, da vecchio imbecille. Io non consumo frizione né freni, uso le marce e non mi sono mai o quasi mai trovato in situazioni estreme causate da me, mentre sono riuscito sempre a salvare il culo in situazioni disperate causate da certuni che non avevano il diritto di stare sulla strada se non per i soldi del padre che gli comprava una grossa cilindrata. I soliti stronzi della strada.
    Anche noi diciamo camminare per andare veloce, come il vecchietto siculo.
    In quella situazione del km 77 io, però, non potevo fare più nulla oltre che guardare i fari del BMW che mi arrivava addosso.
    Forse c'era qualcuno in quel momento accanto a me. Se penso che mio padre, quello del 43, era morto sette anni prima, credo che si trovasse ancora dalle mie parti e che per la seconda volta mi abbia salvato la vita. Io non ho mai capito contro cosa abbia battuto col muso quel BMW. Quella notte ho guardato decimetro per decimetro con la torcia del Polizist, che pensava cercassi qualcosa che mi ero perduto, ma non ho visto niente. Forse gli ha fatto la cianchetta (lo sgambetto) papà.
    Grazie degli auguri.

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  6. *Lenny. Nipotino nerazzurro (per questa volta, dai) anche tu scusa la lunghezza, ma mi sono sentito trascinato da un turbinio di ricordi, di quelli pesanti e così non la smettevo più. Mi faceva male smettere, come se perlandone, raccontandone io facevo rivivere tutte quelle persone, come papà, che allora erano vive e che oggi non ci sono più.
    Guarda tu che razza di sentimentale sto diventando, anzi SONO diventato.
    Grazie degli auguri, penserò che tu sia accanto a me, come tutti i miei amici, quando brinderò.
    Ciau, ciau, ciau!!!:)))

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  7. In ritardo ma mille auguri anche da parte mia, è che mi sono trattenuta un pochino per finire di leggere il tuo post e allora...
    Ma non immagini con quanto interesse l'ho letto! Sono cresciuta con i racconti dei miei nonni materni, che purtroppo ora non ci sono più, mia madre è una tua coetanea, anzi è più grande di te di 2 anni, e lei in quel tempo disgraziato era solo una ragazzina! Lei e i suoi fratelli sono nati tra Roma e la bella Romagna, mio nonno fu trsferito dalla nostra terra in quei luoghi per lavoro, anche loro hanno vissuto e subìto i bombardamenti e il crollo della loro casa, la fame e la dittatura fascista! come si possono cancellare quei traumi? Probabilmente mai! Mio nonno mi raccontava che riuscì a salvarsi da una retata dei tedeschi, grazie all'intelligenza e prontezza di mia madre, che catalizzò l'attenzione di quei soldati senza scrupoli, intorno alla radio e facendo fare loro percorsi all'interno della casa senza farli passare davanti alla stanza da letto dove si trovava mio nonno, perchè quel giorno non fece in tempo a nascondersi nel rifugio, ricavato da un muro nascosto dietro un armadio!
    Che tempi.....di sicuro noi, "nuove generazioni" non abbiamo neanche la più pallida idea di cosa avete passato nella vostra fanciullezza!!! Io conservo un grande rispetto e ammirazione per chi come voi ha saputo lottare e conservare quei ricordi con orgoglio e fierezza!
    Ma ora sono io che la faccio lunga, ciao, a presto!

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  8. Ben entrata Miriam e grazie del tuo contributo. Da un po' di tempo manca profumo di donna, ed è bene che ci sia.
    Sono mille gli episodi che dovrei postare perché quei ricordi sono ammassati nel mio primordiale cervello, quello del serpente, quello di un bambino che guardava il mondo con occhi trasognati. Lo guardo ancora così. ho ancora tanta fiducia negli uomini e nelle donne; vedremo se ben riposta.
    Una cosa mi contraddistingue dal bambino di allora, una cosa che quelli della tua generazione nemmeno immaginano: noi tenevamo gli occhi fissi sul cielo, perché era da lì che arrivava la morte, dai caccia americani.
    Non li sentivi mai giungere, li dovevi vedere e buttarti per terra dietro un nascondiglio qualsiasi e pregare.
    Di questo non potremo mai abbastanza ringraziare il Duce che giocò al poker bluffando con le carte false.
    Grazie per essere intervenuta.
    Verrò a trovarti sul tuo blog.

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