Terza tappa
Verena mescolò lo zucchero nel caffè caldissimo, lo sorseggiò e depose la tazza per metà svuotata sulla sua scrivania. Sentiva addosso lo sguardo della signora Samenberg.
-Ho un sacco di domande, disse.
E io un sacco di risposte, le fece eco Esther. Cominci pure dalla metà, tanto l'inizio non sa nemmeno dov'è.
-Me lo dica lei, allora.
-Glielo dirò alla fine.
Ridacchiò, ma le venne un accesso di tosse. Quando riuscì a controllarsi si pulì la bocca.
-Guardi che non era un giochetto, mi viene meglio se glielo spiego alla fine. Allora Verena, queste domande?
-Cosa c'entro io?
-Anche questo glielo dirò dopo; la prossima.
-Conosceva Edith Upward?
-Edith LS Upward, innanzi tutto; sì, la conoscevo.
-Personalmente?
-Sicuro.
-Sa che fine abbia fatto sua figlia?
-Sì, lo so.
-Ieri sera però ha chiesto alle sue amiche se lo sapessero loro, così ho creduto, voglio dire che ho pensato...
-Che lo ignorassi? Ha sbagliato: volevo sapere quanto quelle due fossero informate.
Verena pasticciò con la tazzina; si sentiva improvvisamente in difficoltà.
-Avanti, signorina Mutig, sputi il rospo! Spari la domanda che le viene sulla punta della lingua, anche se pensa che è una stronzata: si faccia coraggio!
-Non ho rospi da sputare, signora Samenberg, né mi vengono su domande strane. Non so perché, ma mi sento molto confusa.
-Credevo fosse più perspicace, signorina Mutig.
L'anziana donna fece un sospiro; si alzò dalla poltrona e prese un pacco di giornali da un cassetto.
-Sono tutti dello stesso giorno, disse porgendoli a Verena; portano tutti il necrologio di Edith. Li legga attentamente: non troverà la verità ma certamente qualcosa di strano, che dovrebbe aprirle gli occhi.
Verena conosceva la storia di Edith LS Upward; aveva letto i suoi romanzi, i suoi racconti e una bella biografia che uno scrittore slovacco aveva scritto prima che lei morisse, dieci anni prima, nel 1999 a novanta anni, di ictus cerebrale. A Verena era sembrata una morte degna di una grande narratrice: a un certo punto la lampada fa "clic" e diventa tutto buio, e tu te ne vai in gran fretta, senza prolungati soggiorni in cliniche costose e in ospedali; il cervello esaurisce le pile e tu sei morta, basta, fine. Perché uno scrittore è tutto cervello, il resto serve a poco, e se il cervello schiatta tu sei già morta. Non c'è bisogno di nessun dottore che certifichi che sei crepata, basta il tuo editore, nemmeno, basta l'edicolante qui all'angolo che dica "non scriverà più".
Rifletté un attimo: forse l'edicolante per essere in sintonia con questo ragionamento dovrebbe dire "non penserà più", ma per quel che riguarda il suo negozio ciò che a lui importa è che non potrà più scrivere, il pensiero te lo fai fritto, potrebbe aggiungere l'edicolante, e non è questo il momento di discutere sul livello culturale degli edicolanti, tagliò corto Verena.
Letti i necrologi ripiegò i giornali e li depose in ordine sul tavolo.
-E allora? Chiese aggressiva.
Esther fece un altro profondo respiro. Testa dura, pensò, si ostina a non capire. Dovrò farglielo entrare nella zucca un po' per volta.
-Non ha letto attentamente, Verena. Tutti i giornalisti si sono dilungati su particolari di poco interesse e già assai noti: dov'era nata, come si chiamava da nubile, il marito americano, i suoi libri e la sua fortuna letteraria. Soltanto due righe sul suo soggiorno ad Auschwitz durato tre anni.
-E nessuno parla di una figlia, la interruppe Verena.
-E nessuno parla del suo primo marito.
-Già, è vero. Non ci avevo fatto alcun caso.
-Non ci si può far caso, sembra tutto assolutamente normale: nessuna figlia, nessun padre; quindi nessun marito.
-Edith era sposata o no col padre di sua figlia?
-Naturalmente. Ma andiamo con ordine, e lei non mi interrompa con domande da servetta. Mi versi ancora un po' di caffè piuttosto.
Lo bevve di un fiato perché si era già raffreddato; poi ricominciò.
-Dopo l'emanazione delle leggi antirazziali fasciste Edith era riuscita a procurarsi dei documenti falsi. Non poteva uscirne fuori che fosse ariana e cattolica perché era troppo conosciuta nell'alta società romana. Fece quindi cambiare tutti i cognomi e si battezzò Edith Benedetti, vedova Levi Strauss. Fece morire il marito come ufficiale delle Camicie Nere combattendo eroicamente a Guadalajara il 20 marzo del 1937, quando la figlia aveva tre anni. C'erano amici altolocati nel Fascio, che l'aiutarono a costruirsi in famiglia un martire fascista, anche se giudeo. Si mormorava che perfino il Duce fosse venuto a conoscenza dell'imbroglio: fece finta di niente, ma non mosse un dito per evitarle la deportazione. Le malelingue dissero che la Petacci fosse gelosa di Edith e che minacciasse uno scandalo se la rivale non fosse sparita da Roma. Comunque la fama di moglie di un eroe fascista arrivò fino al Comando delle SS a Berlino, e anche per questo fu trattata con grande rispetto. In verità Edith si era appropriata del nome da ragazza di sua madre Miriam, che era una Benedetti, e trasferito al marito pari pari il nome di suo padre Isidoro Levi Strauss, che era morto da oltre venti anni.
-E come chiamò sua figlia?
-Non la chiamò affatto! Questo fu il colpo magistrale di Edith: già da quando aveva in mente il suo piano con lo scambio dei cognomi fece mettere in giro, da parte dei suoi amici più fidati, la voce che la bambina fosse frutto di una sua relazione extraconiugale con un pezzo grossissimo del partito fascista, ariano a prova di bomba, che amabilmente si prestò al gioco. Così Isidoro Levi Strauss la seconda volta che morì tra le zolle della Castiglia Nuova lo fece da vero fascista: martire e cornuto. La storia si era talmente ben diffusa che Claretta Petacci la bevve per buona, e si sapeva che quando parlava di Edith non la nominava mai, preferendo chiamarla "la puttana ebrea che figlia con tutti i gerarchi". E così tanto starnazzò Claretta che la notizia arrivò alle orecchie di chi doveva ascoltarla, assecondando i piani di Edith. Appena arrivate ad Auschwitz il Comandante del campo le convocò tutte e due nel suo ufficio. Gli bastò un'occhiata: Edith era alta e formosa, mora di capelli e con occhi nerissimi; la figlia invece esile e bionda con occhi azzurri. Non era stato ancora scoperto il DNA per loro fortuna, per cui fu deciso di non trascrivere il nome della bambina sui registri, né di tatuarle nessun numero o sigla sul braccio. Solo una stella di David di pezza gialla cucita sul petto e un trattamento decisamente speciale. Una meravigliosa trovata, non le pare? Il suo miglior romanzo, non scritto ma vissuto.
-C'è qualcosa che stona in questa storia e che mi dà fastidio, signora Samenberg. Per la figlia Edith ebbe un'eccellente trovata, tanto di cappello; ma lei era una Levi Strauss e restò una Levi Strauss anche dopo il trucco dei documenti. A me sembra che abbia voluto far sparire il nome del marito. Non è così?
-Vedo che ricomincia a far funzionare il suo cervellino. Sì, è così.
-Ma perché? Era forse il nome di un bandito, di un assassino?
-Al contrario: il marito di Edith era l'unico ebreo per il quale Himmler si sarebbe tolto la camicia di dosso e il pane di bocca, se l'altro glielo avesse chiesto.
-Addirittura! E chi era, un dio?
-Qualcosa di più agli occhi dei nazisti: era il più grande cervello matematico del suo tempo. Lavorava in un bunker con una squadra di scienziati ai suoi ordini. Aveva iniziato insieme al gruppo dei cervelloni che lavoravano sul principio dell'acqua pesante per attuare la fusione nucleare, ma ben presto si era messo a seguire una teoria tutta sua che l'avrebbe portato a trovare l'arma più potente dell'intero Universo, come lui sosteneva.
-Quindi era un traditore, che lavorava per i nemici del suo popolo.
-In un certo senso, ma non del tutto: lui inseguiva il suo genio, ma quello che lei ha detto era la stessa cosa che pensava Edith. Lei non voleva si sapesse che suo marito stesse aiutando Hitler a vincere la guerra; non voleva che questa vergogna ricadesse sulla figlia, perciò inscenò tutto quel teatro, aiutata dal fatto che pochissimi conoscevano suo marito a Roma, e ancora in meno sapevano come lui si guadagnasse da vivere. Consideri che i nazisti tennero gelosamente segreto il suo nome: non andava a genio nemmeno a loro che si sapesse che le sorti del conflitto fossero nelle mani di uno sporco ebreo.
-Perbacco questa Edith, che maestria! Con una biglia sola e un colpo di stecca fa quattro buche! Cambiando i documenti ha vinto tutto: fa scomparire il nome del marito, Giuda traditore, al suo posto se ne fabbrica uno così compiacente, che prima si lascia cornificare per farle partorire una mezzo sangue (e mi raccomando che sia a tutti palese che la metà di quel sangue è ariano, perché divenga un perfetto salvacondotto per l'immunità della piccola); poi si fa ammazzare dai rossi diventando un eroe fascista a ventiquattro carati per la salvezza della moglie.
-Brava, no? Se lo avesse scritto in un romanzo la gente non lo avrebbe creduto.
-Neanche lei le ha creduto, perché lei conosce la verità, signora Samenberg, non è vero? Voglio dire che lei sa che fine ha fatto questa fantomatica figlia, e che certamente conosce il famigerato nome di suo padre, di questo scienziato più importante di Einstein e di Fermi di cui nessuno, ripeto nessuno, sa nulla, ma proprio nulla. Se era così importante avrà lasciato qualcosa di scritto: gli scienziati scrivono tutti, magari formule incomprensibili ai normali mortali, magari appunti indecifrabili, ma scrivono.
-Tutto sequestrato dai nazisti, tutto sparito.
-Me lo aspettavo. Sparito anche lo scienziato in un turbine di fiamme?
-Niente affatto: è morto quindici anni dopo la fine della guerra. Uno sconosciuto e poco significante insegnante di matematica visse, insegnò, morì e fu sepolto in Germania, in un minuscolo paesotto di nemmeno duemila abitanti.
-E il nome sulla tomba?
-Il suo.
-Ed era?
-Isaia.
-Isaia, naturalmente. È stato messo sulla tomba per caso anche il cognome?
-Certamente
-E sarebbe?
-Samenberg, Isaia Samenberg.
Terza pausa
Sempre più bello ed avvincente. :)))
RispondiEliminaGrazie fratellino. Spero che il seguito lo sia ancora di più.
RispondiEliminaÈ sempre un piacere accoglierti.
Ciau. :)))
BELLA BELLA BELLA la frase della morte che fa clic, ed è subito sera, subito notte.
RispondiEliminaSe davvero la morte fosse così gentile da arrivare e portarci via con un clic, in un batter d'occhio, senza nemmeno darci il tempo di ribattere, di tentennare, di tirar fuori il fazzolettino per salutare quelli che restano sulla pensilina.
Purtroppo non è più così. Quando ti viene un ictus, subito i medici ti fluidificano il sangue e tu rimani sul predellino del treno, a soffrire le pene dell'inferno, fino a che finalmente cadi e finisci sotto le rotaie.
Lo so, eccome se lo so! Hanno tenuto in vita mia madre una settimana perché io potessi vederla ancora in vita, e io sono arrivato che era morta da alcune ore. Mia cognata mi ha detto che non apriva più nemmeno gli occhi, che non riconosceva le voci, ma lei "voleva vedere" se avrebbe avuto una reazione ascoltando la mia voce.
RispondiEliminaPoi hanno tenuto in vita mio fratello per due settimane, in condizioni poco umane secondo me. Non c'era alcuna speranza di salvarlo. Per me accanimento terapeutico e basta.
Ma nel caso di Edith LS Upward la morte arrivò velocissima e fece clic, spegnando la luce del suo cervello, e sai perché?
Perché così ho voluto descriverla io quella sua morte, in ricordo di quelle di cui sopra.
Anch'io come Silvia sono molto colpito dalla bellissima parte sulla lampadina cerebrale che si spegne e via (per i più fortunati). Mi è piaciuto molto anche il vivace divertissement del dialogo d'apertura su metà, inizio e fine...
RispondiEliminaMi convincono un po' meno, stavolta, tutte le rivelazioni genealogico-anagrafiche che emergono dal lungo dialogo fra le due: secondo me sono rivelazioni che stanno bene verso la fine di uno scritto, a dipanare dubbi che si sono accumulati nella testa del lettore, arrivando infine a fare chiarezza (e a sorprenderlo) mentre così nella parte iniziale dicono un po' poco, disorientano quasi, si fa fatica a seguirle.... Naturalmente questa mia è solo una pignoleria esercitata quasi per gioco: lo faccio tranquillamente con te, perché so che sei talmente bravo e talentuoso da non avertene a male. E poi potrei pure sbagliarmi io, perché siamo solo alla terza parte e ancora mi manca il quadro completo. In ogni caso continuerò a leggere con curiosità...
Ciao caro amico!
È vero Nik: di solito i colpi di scena arrivano alla fine, ma qui doveva essere al principio perché si potesse incominciare a dipanare una matassa.
RispondiEliminaQuando l'ho scritto avevo un progetto in mente e ho costruito il racconto su quello.
Ne riparleremo alla fine.
È probabile che abbia ragione tu; infatti chi scrive è sempre l'ultimo ad accorgersi di essere andato troppo in là oppure di essere rimasto troppo in qua.
Ti sono assai grato dei tuoi rimarchi, come a Silvia dei suoi, perché so cosa pensi di me come scrittore, che poi è quello che io penso di te come scrittore.
Ciao.