Si tratta dell'inizio di un capitolo di un romanzo che sto scrivendo. Il protagonista riesce a rivivere parte della sua vita fetale aiutandosi con un HMD, un Head Mounted Display, cioè un visore virtuale stereoscopico.
Sguazza in un liquido dolciastro. La bocca e le narici ne sono piene, ma non soffoca; apre e chiude la bocca senza respirare, perché non sa cosa sia, non l'ha ancora mai fatto. Per quanto spalanchi gli occhi non riesce a vedere altro che un roseo chiarore, mentre un tenue, costante rumore gli fluttua fino alle orecchie: "... tum...tum...tum...tum..."
Quel rumore gli calma ogni ansia, è una litania incessante che lo fa star bene, come quel liquido tiepido, buonissimo, che gli permette di galleggiare, di capovolgersi, di sentirsi felice e unico. E unico egli è in effetti in quel posto caldo, che odora di buono, di sano.
Sempre quel "...tum...tum...tum...tum..."
E ancora un rumore, più debole, diverso: "...ehi...ehi...che fai...chi sei..." un rumore molto morbido, un suono dolcissimo che torna di tanto in tanto.
È tutto.
È tutto. È la felicità. È la beatitudine di essere l'unico.
Non ha cognizione del tempo, ma del piacere che il tepore del liquido gli procura sulla pelle. Il piacere continua, sembra eterno.
Lo culla quel ritmico "...tum...tum...tum...tum..." così rassicurante, e poi più spesso ancora un suono: "...sei lì dentro...sei lì dentro...dico a te..."; la beatitudine aumenta ancora, aumenta sempre.
Improvvisa e inattesa una scoperta: il dolore. Qualcosa che stringe ai fianchi, intorno al collo, che immobilizza la testa, qualcosa che tira verso il basso, fuori dal liquido dolciastro, fuori dalla felicità, lontano dal ritmico tum, tum, tum, tum, che ormai non sente più.
E col dolore arriva la paura.
Paura, paura forte, terrore. Rumori, rumori forti, rumori fortissimi, terrore folle.
Qualcosa lo tira con gran forza verso il basso, lo fa precipitare in basso.
Rumori sempre più forti. Rumori strani, acuti, gravi; acutissimi e gravissimi, che si mescolano tra loro in una voragine di suoni.
Precipita senza fine nella voragine di suoni.
In un attimo tutto si ferma: poi un'esplosione violenta di luce e di rumori assordanti.
Lo strattonano, lo opprimono, lo agitano nella luce.
Dolore agli occhi. Soffoca.
Qualcuno picchia duro su di lui.
Un dolore atroce gli penetra dentro bruciando, attraverso la bocca spalancata.
Respira per la prima volta, poi di nuovo e di nuovo e ancora di nuovo respira.
Annusa un odore che già conosce; ascolta suoni morbidi, dolci, che non capisce ma che ha già ascoltato: "...sono qui...sono qui...sono io..."
Chi ben inizia è a metà dell'opera!
RispondiEliminaDopo essere stati sfrattati con spietata violenza primordiale da quel comodo pagliericcio* che era il ventre di nostra madre, passiamo il resto della vita a cercare un altro posto altrettanto confortevole, senza trovarlo ...
(chiamasi ventre, non pancia, ti ricorda qualcosa?)
* chiedo venia a Nik per avergli copiato la parola pagliericcio, che mi piace.
Tutti incominciamo bene, poi...
RispondiElimina"comodo pagliericcio" mi piace. Dici che l'hai copiato da Nik? Non mi ricordo dove lo ha scritto, ma mi piace, non importa chi lo abbia "erfunden", inventato.
Non ho usato né ventre né pancia -ma preferisco pancia, sono un plebeo io e la parola ventre ha qualcosa di sontuoso, la parola pancia qualcosa di molto più intimo- sono perplesso: cosa dovrebbe ricordarmi?
Aiutami, se vuoi.
Mi sembra adesso di ricordare uno splendido racconto di un travaglio e di un parto in cui la giovane scrittrice usava la parola "ventre". Bello il racconto, scritto non solo molto bene ma col cuore di una giovane madre.
RispondiEliminaPenso tu alludessi a quello.
Scusa se nella concitazione dei miei tanti, troppi, pensieri mi era scivolato sotto un cumulo di idee e di ricordi.
Comunque ricordo pure di avere sempre pensato e detto di essere uscito "dalla pancia di mia madre". Te l'ho detto: io sono un plebeo.
Fuochino ...
RispondiElimina(vedo che ti faccio lavorare la memoria: sono il tuo gratuito viagra neuronico)
No, non era quello, era un racconto pubblicato da una rivista: parlava di una madre che partoriva una figlia down - nel quale mi avevano sostituito la parola "ventre" con "pancia", e io me ne ero lamentata con te, dicendoti che la tal dei tali non capiva un beato, e tu mi avevi dato ragione!
La tua odierna posizione plebea sulla faccenda mi istiga or ora il sospetto che l'avessi fatto solo per compiacermi!!!
:))))
A parte gli scherzi, per me ventre è una parola biblica, più che sontuosa.
La parola pancia mi fa invece venire in mente solo il mal di pancia, come se lì dentro ci potesse stare solo del cibo, e non un essere vivente.
Al tuo post mi piace abbinare questa bellissima canzone
Purtroppo You Tube non trasmette il tuo video in Germania. Era già successo. Mi dispiace. Se mi scrivessi almeno le parole...
EliminaAscolta viagra neuronico, io ricordavo il tuo racconto e pensavo anche a quell'altro, ma non mi veniva tanto chiaro.
Allora si dice "stare in un ventre di vacca" oppure "ciò er mar da panza". Io da piccolo ho sempre pensato alla pancia di mamma, dove stavo io.
Non l'ho detto per compiacerti, perché se dovessi scrivere io un racconto del genere parlerei di ventre e di visceri, ma non userei la parola pancia.
Quella è un'espressione plebea per plebei come me.
Ma quando scrivo dimentico le mie origini plebee e cerco di volare alto.
Come adesso nel risponderti e anche altre volte, mentre in altre occasioni -soprattutto quando uso il mio dialetto- sono volutamente un plebeo.
Ma plebei si nasce, grazie a dio, non si diventa.
Da bravo Artista non ti manca il coraggio, perché qui ti cimenti con qualcosa di davvero difficile... qualcuno ha detto che soltanto IN UTERO siamo stati felici, in quel sogno amniotico che starebbe alla base di tutti i nostri desideri successivi (il volerci ritornare, più o meno inconsciamente)... Davvero lì dentro avremo conosciuto anche la paura, o essa ha avuto inizio con lo spaesamento e il freddo e la luce violenta del venirne fuori? Forse è un bene che certi misteri rimangano. Anche se è bello che la fantasia di uno scrittore provi a misurarcisi... Grande Enzo! :D
RispondiEliminaE tu, amica Silvia, usa pure tutti i pagliericci che vuoi: con tutti i neologismi che invento, ci mancherebbe solo di pretendere il copyright del buon vecchio pagliericcio... :-))))
Sai che ci penso da sempre io a quei bellissimi nove mesi?
RispondiEliminaCredo sia umano volerci tornare, anche per quelli che non si chiamano Francesco Schettino, perché la ricerca del luogo misterioso dove tutto ha avuto inizio (ventre materno, ha ragione il mio viagra neuronico), si unisce e diventa tutt'uno col successivo bisogno di trovare una plaga di pace, di tranquillità e di sicurezza. Dove meglio di lì?
Ho provato a misurarmi con un mistero; alla fine ho riletto e mi è piaciuto. In fondo questo è il mio metodo: mai fermare la fantasia, lasciarla scorrere fino alla fine, come un gomitolo che si srotola; poi alzarsi, andare a fare due passi, bersi un'aranciata -non fumo più- poi tornare sul luogo del delitto e rileggere. Se mi piace resta, se no si riaggomitola lo spago e lo si tira di nuovo.
Finora ho avuto fortuna e non ho dovuto mai ritirare indietro lo spago. Grazie, grande Nik:))
Concedi pure alla nostra Silvia i tuoi neologismi: le occorrerà un quadernone per raccoglierli tutti. È un piacere quando vedi che altri ti imitano e diventano, in un certo qual senso, tuoi epigoni.
Silvia "tenta" da brava polentona di imitare il mio romanesco con risultati quasi brillanti. Mi fa tanto piacere quando la leggo: la vedo trascrivere quei suoni, per lei così aspri, tenendo la punta della lingua fuori dai denti per l'impegno.
Carino no?