lunedì 20 giugno 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Parte sesta


-Mamma mia, che faccia sbattuta oggi!
La cassiera del bar che vedeva Verena tutte le mattine si era accorta subito della nottataccia che aveva passato.
-E non è nemmeno roba da maschio questa, aveva aggiunto sottovoce; questa è roba da mal di stomaco, da febbre. Forse ce l'ha ancora addosso.
-Ho la testa che mi scoppia.
-Niente caffè macchiato allora, prenda un the.
-Così vado di corpo mentre attraverso la strada. Macché! Mi faccia il solito caffè.
Ma dopo era corsa subito alla toilette per darsi un'occhiata allo specchio. Niente da eccepire se l'altra si era fatta tante meraviglie: aveva la faccia di un pugile suonato con due cerchi scuri intorno agli occhi. Dormito male e poco, sudato abbondantemente tutta la notte. E fuori pioveva. Ci mancava, quando era umido i suoi capelli diventavano una massa di fili di ferro.
Saltellando sui tacchi a spillo per evitare pozzanghere si infilò nel salone del suo parrucchiere, infischiandosene dell'appuntamento che non aveva; doveva fare un completo maquillage per mascherare le occhiaie e restaurare la capigliatura. Mentre stava sotto il casco si diede a esaminare il suo mal di testa, la sua sudata notturna, lo stato confusionale in cui si era ritrovata appena buttate le gambe fuori dal letto. Non c'entrava niente la cattiva dormita: quando dormiva male si svegliava spesso e se ne andava in giro per la casa tirando mattina come un'anima senza pace fin dai tempi dell'infanzia. Non erano nemmeno dolori alla testa dovuti alla febbre, perché non le facevano male la nuca e il collo e respirava bene senza affanno. Quello era il suo tipico mal di testa da ansia, che l'assaliva quando doveva affrontare prove di un certo impegno, oppure quando pensava che stesse per cascarle addosso qualche accidente. Mal di testa da presentimento di disgrazie o comunque di qualcosa assai spiacevole. Ma che diavolo poteva capitarle in quel momento? A soldi andava tutto bene, mai filato via così liscio come adesso. Nessun problema di cuore, grazie a Dio; la fisionomia dell'ultimo amante ormai sbiadita e nessun altro in vista. Salute discreta, come al solito. Insomma niente per cui valesse la pena di allarmarsi, eppure qualcosa sotto la pelle se la sentiva muovere. Doveva mettersi in guardia contro un accadimento misterioso, un vero e proprio accidente, che probabilmente stava effettuando giri concentrici sopra la sua testa prendendo ben bene la mira prima di venire giù in picchiata. La condizione peggiore di attesa è quando non sai cosa cacchio stai ad aspettare, pensò mentre spalancava l'ombrello e si avviava di buon passo verso il suo posto di lavoro.
Con la sua minuta calligrafia da scolaretta delle elementari Esther la pregava nel biglietto poggiato sui tasti del computer di raggiungerla di sopra in camera sua, "in qualsiasi istante del giorno e della notte lei arriverà", concludeva in tono più melodrammatico del solito. Il tempo di togliersi le scarpe bagnate e di infilarne un paio di quelle più basse e comode prima di salire di sopra.
La stanza era quasi al buio, soltanto da un minuscolo abat-jour proveniva un filo di luce. Sentì la signora Samenberg annusare voracemente l'aria in cerca di cattivi odori, che la ossessionavano. Verena non poteva vederla, ma l'immaginava col naso arricciato e la bocca increspata in una piega di disgusto.
-Sono dovuta passare prima dal parrucchiere; questo tempo mi devasta i capelli in modo indecente.
-Una puzza discreta in un certo senso, le rispose l'anziana donna; comunque grazie di non essersi spruzzata addosso quel profumaccio rancido di quell'orribile sarto tedesco.
Stava sdraiata sul suo lettone, appoggiata con la schiena sopra un cumulo di cuscini.
-Apra uno spicchio di finestra, Verena; lasci penetrare un filo d'aria, ma non di più.
In quella camera era entrata più di una volta, ma non aveva mai visto la signora Samenberg a letto; men che meno l'aveva vista con indosso quella antiquata veste da notte stracarica di pizzi e di merletti.
-Si metta comoda, Verena; ne avremo per un bel pezzo.
Avvicinò una poltroncina al letto e sedette accavallando le gambe.
-Dovrò prendere appunti?
-Neanche un po': dovrà tenere tutto a mente, tutto quello che le dirò io.
Si sollevò un poco sui cuscini; prese fiato e congedò con un cenno della testa il tentativo di aiuto da parte di Verena.
-Voglio ringraziarla per tutti gli anni che ha lavorato per me e sopportato i miei cattivi umori, anche se ci ha guadagnato due romanzi di successo.
Fece un altro cenno imperioso con la testa aggrottando le sopracciglia.
-Non mi interrompa. Sappia che ho dovuto sprecare una raccomandazione soltanto per il primo dei suoi libri, perché quel filibustiere del direttore della sua Casa editrice voleva fregarla. Non l'ho fatto per darle un contentino, ma perché ero convinta che lei avesse scritto un bel libro, tutto qui.
Si accomodò meglio la coperta.
-Dunque, come le dicevo, il suo lavoro qui mi è stato prezioso e la ringrazio. Non so quanto tempo ancora potrà durare, due o tre mesi, forse quattro, ma ormai sono arrivata al capolinea, cara Verena.
Si interruppe, prese fiato e continuò a fissarla a labbra serrate con la sua solita posa da commediante consumata. Sapeva che oramai non sarebbe stato più un colpo di scena, che la sua segretaria aveva da tempo capito, ma nessuno le avrebbe tolto il ruolo della primadonna lì dentro.
-Mi è cresciuto un albero nella pancia, disse infine; le radici sono nel colon, ma i rami arrivano da per tutto e da per tutto sbucano foglie, fiori e frutti velenosi. Il cancro è qui, e si appoggiò le mani sul basso ventre; ma ho metastasi ovunque, anche nelle ossa dei piedi. Il mio medico dice che mi restano sei o sette mesi, aggiunse con flebile voce dopo una pausa; durante i primi quattro vivrò, poi vegeterò. Ecco fatto, gliel'ho detto. Adesso badi bene a non commiserarmi: odio le giaculatorie e le lacrime dei coccodrilli.
Ma Verena non aveva voglia di compiangerla, per questo tacque.
Alla signora Samenberg quel silenzio fece un bell'effetto: significava evitare le frasi fritte di circostanza; indicava sgomento e perché no, dolore. Ma sicuro! Ci si affeziona alla gente non soltanto agli animali; anche a lei dispiaceva abbandonare Verena sulla faccia della terra, ci si era ormai abituata a quel bell'animale domestico.
Verena invece pensava prosaicamente al mutuo della casa da pagare ogni quindici del mese, al nuovo job che si doveva cercare, al trasloco dei suoi libri e delle due o tre casse di documenti che ormai le si erano accumulati; per ultimo al grosso problema dei funerali di un personaggio così famoso e ingombrante. Tutto sulle sue spalle, naturalmente, e nessuno a disposizione per darle una mano. Poteva provare alla Sinagoga e tentare col Rabbino, chissà; ma Esther Samenberg se li era inimicati tutti con le sue teorie del cavolo sulla religione dei Padri. Per questo Verena stava zitta: soffriva in silenzio. Capì però che qualcosa doveva pur dirla, che alla fine un commento striminzito a quella notizia bomba doveva strizzarselo fuori dalla bocca, glielo imponeva la sua buona educazione e l'attesa che leggeva negli occhi spiritati di Esther puntati sui suoi.
-Sarò così sola dopo, come un'orfana.
Bel colpo! Si disse. La battuta che mancava sul mio copione. Maledettamente buona per giunta. Glielo leggo in faccia che l'ho sorpresa e scossa con questa allusione alla maternità che lei aveva volutamente rifiutato. Una bella martellata su un portone chiuso ho dato, senti come rimbomba.
Ma Esther impiegò pochi secondi a ritrovare il suo à plomb. Si occupò un po' dei suoi pizzi, lisciò e accomodò il lenzuolo e riprese a parlare dal punto in cui si era interrotta, come se niente fosse stato.
-Grazie per non avere fatto piagnistei né domande inopportune, amica mia. Adesso però spalanchi la finestra, ci sarà bisogno di luce qui dentro.
Verena passò e ripassò due volte davanti al letto per effettuare l'operazione e tornarsene al suo posto sentendosi addosso lo sguardo di Esther Samenberg. Pensò che adesso le sarebbero arrivati come schiocchi di frusta i suoi ordini su come organizzare i giorni, le ore e i minuti da quel momento fino alla sua morte; e poi anche su tutto quello che a lei sarebbe toccato fare dopo la sua morte, le esequie cioè e gli inviti alla cerimonia; e per finire il catalogo di tutti i suoi libri, dei suoi scritti, degli appunti e dei mille oggetti e oggettini che si teneva intorno in quella casa immensa. E guai a prendere appunti, poteva immaginarselo: Esther era sempre pronta a nasconderle trappole davanti ai piedi, felice e beata quando la vedeva infilarcisi dentro a testa in giù. C'era da scommettere che da lì al decadimento finale ogni giorno le avrebbe trovato un compito diverso, e dato tante bacchettate sulle dita a ogni dimenticanza, lei che non si scordava mai di niente. Chissà da quanto tempo Esther aspettava il momento di mettere in scena il gran finale prima di crepare, e venire a conoscenza della scadenza dei suoi giorni doveva esserle apparso come un colpo di fortuna.
Verena pertanto si accomodò sulla sua poltroncina più comodamente che poté in attesa delle istruzioni. M si sbagliava.
-Le racconterò una storia che le sembrerà incredibile, ma è tutta vera. Nell'ultimo cassetto in basso del comò c'è una grossa scatola di cartone. La prenda.
Dispose sul letto a semicerchio intorno alle sue ginocchia quel che ne estrasse: alcune pagine ingiallite di vecchi giornali; due fotografie in bianco e nero 13 x 9, due a colori 14 x 10 e una grande in bianco e nero 24 x 30; una busta da lettera molto spiegazzata con un indirizzo illeggibile, e infine una scatoletta multicolore con sopra stampigliata in oro la sigla MF-2HD contenente dischetti per computer.
-Legga questo ritaglio, Verena.
Era una terza pagina de "La Stampa" di Torino, datata 20 settembre 1973; in basso, listato con un pennarello rosso, un trafiletto occupava un quarto di colonna: il Ministero della Cultura della Repubblica di Cuba inviava a Parigi due competenti critici d'arte per curare la scelta, l'imballaggio e la spedizione di alcune opere di Picasso, messe a disposizione dalla Galleria Louise Leiris, tra cui una eccellente "Tête de femme" in bronzo e il quadro "Joueur de flûte et femme nue", dipinto a Mougins il 21 ottobre 1970, che insieme ad altre opere provenienti dal Museo dell'Ermitage di Leningrado e da collezionisti privati sarebbero state esposte nella Casa di Cultura Popolare a l'Avana per un omaggio postumo al grande artista catalano.
-Picasso era morto l'otto di aprile di quell'anno e c'era un grande fermento da per tutto per accaparrarsi opere sue da collezionisti e da gallerie private. Tutti volevano esporre tutto. C'era poi una gran confusione, dovuta al fatto che il Catalogo Zervos era fermo al XXXII° volume, dopo che Yvonne e Cristian Zervos eramo morti l'uno dopo l'altro tre anni prima. Picasso nei suoi ultimi anni di vita dipinse molto e disegnò tantissimo, si figuri il caos che c'era a Mougins nella sua villa atelier di Notre-Dame-de-Vie.
Ai primi di ottobre del '73 venne a farmi visita Josephine Kneff, una ebrea svizzera figlia di una grande amica di mia madre, morta dentro le docce di Auschwitz. Josephine era stata sottratta alla deportazione da una famiglia cattolica romana, che era riuscita a infilarla all'ultimo momento prima di una retata in un piccolo monastero a Castel Gandolfo. Mi ero quasi dimenticata di lei, ma Josephine non si era dimenticata di me né di mia madre, che alla fine della guerra se l'era presa in casa come una seconda figlia. Eravamo coetanee io e Josephine e anche piuttosto somiglianti, così la gente ci prendeva per sorelle.
Quando mia madre sposò Allen Upward io decisi di rimanere a Roma con mia nonna, non mi andava di correrle dietro. Josephine invece fu felicissima di seguirli in Pennsylvania, e si installò nella loro bella villa di Harrisburg come una principessa. Mi scriveva spesso, mi raccontava tutto quello che succedeva, mi chiedeva di raggiungerla. Di colpo smise di scrivere e dopo un paio di mesi seppi da mia madre che se n'era tornata in Svizzera, così senza spiegazioni; cioè mia madre non mi diede spiegazioni, e io pensai che di ragioni sotto ce ne dovevano essere a mucchi, ma poiché la cosa non mi interessava non indagai.
Di Josephine non seppi più nulla fino alla mattina che lei suonò alla porta di casa mia, e io aprendo me la trovai davanti. Io non conoscevo niente di lei, invece lei conosceva tutto di me: sapeva che ero io l'autrice dei libri di Edith LS Upward (un'informazione avuta di prima mano da mia madre); sapeva dei miei corsi di pittura all'Accademia di Brera; sapeva che mi dilettavo a imitare quadri di Picasso e di Braque; sapeva che non mi ero sposata, ma conosceva i nomi di tutti i miei amanti; insomma sapeva tutto.
Cercai di pareggiare il conto e le chiesi di raccontarmi come aveva trascorso tutto quel tempo, e cosa faceva per vivere. Fu molto evasiva sul passato, due parole e via; per il resto mi spiegò che era una fotografa d'arte molto richiesta, che fotografava oggetti d'arte ma soprattutto quadri e affreschi con tutte quelle tecniche a rifrazione della luce per la perfetta incidenza angolare tra piano del quadro e piano della macchina. Qualcuno me ne aveva già parlato, ma lei quella mattina mi spiegò tutto da capo perdendoci un paio d'ore, perché io in fatto di tecnica sono totalmente ottusa. Comunque capii che la sua era una professione difficile e assai ben pagata. Lei mi rivelò di essere la fotografa ufficiale di tutti i quadri di Picasso per il Catalogo Zervos, e di avere iniziato quella collaborazione nel 1959, cioè dal diciottesimo volume della raccolta.


Sesta sosta

5 commenti:

  1. In effetti mi chiedevo quando mai entrasse in scena il titolo.
    Allora, aiutami a ricapitolare:
    -filename di torture
    -vecchiette simpatiche
    -ebrea sopravvissuta non ricordo bene con quali stratagemmi
    - figlia NUBILE che scrive i libri per conto della madre
    - filename di bombaroli speronati
    - segretaria fidata col mal di testa
    - sorella adottiva comparsa dal nulla
    - e adesso entra in scena nientepopodimeno che Picasso!
    Mi sta venendo il mal di testa anche a me, e non del tipo da maschio , ma da spiedino troppo pieno di carne, cioè da trama che va complicandosi. ;))

    .. Mi è piaciuta la descrizione del mal di testa della segretaria, e la spiegazione che ne segue: segnale anticipatorio di qualche accidente, come la mosca che ti IRRRRITA prima del temporale.
    ciao

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  2. Silvia, esistono racconti senza trama -Nik ne ha postato uno di recente, molto bello, senza inizio e senza fine- sono molto difficili da scrivere. Esistono poi racconti dove la trama è complicata e sono, secondo me, i più difficili da scrivere perché si corre il rischio di procurare mal di testa ai propri lettori.
    Io mi sono avventurato in questa storia con l'animo pugnace di un lottatore: devo arrivare allo scopo, che non è Picasso.
    Nel tuo elenco manca qualcosa, molto importante, che ancora non sai, ma che sta arrivando, che è all'origine del mio concepimento del racconto.
    Abbi fede e pigliati una camomilla.
    Grazie.
    PS. Ho studiato a lungo quel tipo di mal di testa su mia madre e sua mia zia Giulia; ho ascoltato le loro giaculatorie propiziatorie per allontanare sventure. Sono un esperto fin da giovanissima età di codesto tipo di mal di testa. Fidati.

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  3. Be', non si può dire che interesse e curiosità non rimangano ben desti...
    Devo dire che quasi quasi li invidio quelli a cui l'ansia provoca il mal di testa: a me spesso provoca il mal di pancia, che può essere una rottura anche peggiore... :D

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  4. Nik, sentire che interesse s curiosità restano desti a te, che sei solito tenerli desti nei tuoi lettori mi fa immenso piacere.
    Purtroppo conosco -solo quattro volte, ma bastano- anche il mal di pancia da ansia:ogni volta che mia moglie è entrata in una sala parto.
    Penso che per un uomo che abbia quella sensibilità si tratti di mal di pancia da ansia e da complesso di colpa.
    Ed è una rottura sicuramente peggiore del mal di testa da ansia. :D

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  5. Mal di testa, mal di pancia ... che bella discussione ne potrebbe uscire!
    Il mal di testa è tipicamente femminile: lo prova sia la tua esperienza con mamma e zia sia la letteratura.
    La famosa emicrania delle nobildonne ottocentesche non era forse un modo per dire: marito imbelle, per colpa della noia che mi propini ho PERSO LA TESTA per il bellimusto di turno!
    Costrette a tenersi DENTRO LA TESTA questi pensieri, e a correre dietro alla testa che si era persa, l'emicrania era il prezzo minimo da pagare. (il massimo? il suicidio)
    Il mal di pancia è più maschile: cercare di liberarsi istintivamente da ciò che ci fa male, espellere, buttare nel cesso, usare e gettare, SENZA TANTI MAL DI TESTA.
    (la frase è tua, iacoponi)
    E anche qui, hai voglia a trovare esperienze di vita e ampia letteratura.
    Forse qualcosa sta cambiando, per fortuna.
    Io ad esempio quando ero giovane soffrivo di mal di testa, ora quando sono in ansia mi viene mal di pancia come a Nik.

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