lunedì 24 ottobre 2011

PROVA DI ROMANZO

Incipit de "La stanza sospesa"

Rallentò il passo solo quando fu arrivato in Piazza della Repubblica. Gli era venuto il fiatone: tutta la salita di Via IV Novembre e poi Via Nazionale a passi da leone, con la gente che si fermava a guardarlo e poi girava la testa intorno pensando ad una telecamera nascosta, facevano almeno quattro chilometri con un cappuccino e due brioche prese alla stazione tre ore prima.
"Adesso ho bisogno di un po' di aria fresca", pensò, e lì sul marciapiedi non ce n'era. Per questo attraversò il traffico a quattro file in quel punto della rotonda, schivando a pelo macchine e motorini, e sedette sul bordo della fontana sotto una delle Naiadi bronzee di Mario Rutelli.
Lo scroscio dell'acqua copriva in parte il ronzio dei motori, ma il puzzo che usciva dai tubi di scappamento dopo qualche minuto era diventato intollerabile. Riattraversò la marea di macchine, che, pur procedendo a passo d'uomo, davano la sensazione della mandria di bisonti che tutto travolgeva di un film western tridimensionale, che aveva visto qualche anno prima.
Cercò un bar e si infilò nel primo che incontrò. Gli era venuta una fame boia. Ordinò due tramezzini e una birra. A metà birra si fece altri tre tramezzini: se ne sarebbe pappati una decina, ma non aveva abbastanza soldi in tasca. Si era seduto ad un tavolo d'angolo. Di fronte aveva una specchiera alta e stretta. Ci vide riflessa la mimica della sua faccia mentre che masticava. Finì la birra e si deterse la bocca con un tovagliolo. Riguardò nello specchio. Gli apparve il viso di un precario licenziato di fresco e incazzato nero.
"Bel lunedì dei cazzi e dei controcazzi", pensò. "Il degno inizio di una meravigliosa settimana di merda".
Non lo avevano nemmeno lasciato entrare nel suo ufficio.
-Ti vuole il capo.
"Mi vorrà dare del lavoro speciale per tutta la settimana", aveva pensato, "e farmi le sue solite mille raccomandazioni del cavolo". Così era avvenuto all'inizio di ogni settimana da ormai tre anni e mezzo.
Invece si era sbagliato. Lo aveva chiamato per dirgli che il contratto non gli sarebbe stato più rinnovato.
-Ma come? Ho fatto un culo grande così per laurearmi! Mi avevate promesso di assumermi fisso.
-Gradi, io dirigo solo l'ufficio legale della Compagnia. Per quanto mi riguarda lei sarebbe potuto arrivare alla pensione qui dentro. Ma non decido io, e nemmeno il presidente qui a Roma. Le Assicurazioni Generali sono ormai un mostro a quattro o cinque teste e chi decide sta in un altra nazione.
-Io ci facevo affidamento, però. Mio padre ha fatto un credito per restaurare casa: come lo aiuto adesso?
-Gradi, mi dispiace tanto. Si prenda da adesso le sue ferie e si cerchi subito un altro lavoro.
"Un altro lavoro, con la crisi che c'è in giro! Stanno tutti ad aspettare me a braccia spalancate. Adesso che cazzo racconto a mio padre?", aveva pensato mentre scendeva lo scalone.

Il sole cocente di Piazza Venezia gli aveva fatto bene. Gli era venuto in mente di andare a chiedere a sua sorella, sposata con un importante notaio della city, se magari lo aiutava a fargli avere una mano da suo marito.
"Un aiutino piccolo piccolo", si disse; "non deve mica darmelo lui lo stipendio, ma basta che metta una buona parola con una della tante belle persone che conosce. Che gli costa".
E si era incamminato, tanto Via Marco Minghetti stava a due passi.
"Speriamo che sia in casa", pensò; "fa troppo caldo per la bimba fuori".
Ci aveva azzeccato. Eleonora era in casa e Maria Eugenia dormiva. Quello che non aveva considerato erano gli intestini di sua nipote.
-Chiudi piano la porta, Federico. C'è la piccola che dorme e se si sveglia sono dolori...muovi piano la sedia, Federico, ché la bimba dorme...parla piano per favore, Federico, ché la bimba...
-Ma che ha?
-Da ieri fa la cacca brutta.
-Hai chiamato il dottore?
-È venuto ieri sera, ma l'ho già richiamato. E tu perché non lavori?
-Sono in ferie. Ero venuto per chiederti una cosa, ma non è urgente. Ripasso quando la bimba sta meglio.
-Mi raccomando, chiudi piano la porta, Federico. Non me la svegliare.
"Mamma mia, che stronza che è diventata mia sorella!", aveva pensato.
Di colpo si era sentito ancora più incazzato di quando era uscito dal palazzo delle Generali; per questo si era messo a camminare con passi lunghi due metri. Non se ne era nemmeno reso conto, né si era stupito nel vedere la gente che si fermava a guardarlo.

Uscì dal bar almeno con lo stomaco tranquillo. Era quasi mezzogiorno e mancavano più di due ore alla partenza del suo treno. Neanche parlare di andarsene a spasso a quell'ora, il sole di giugno è micidiale a Roma. Decise di andarsene alla stazione bello al fresco a godersi le corse affannate dei ritardatari.
Camminò muro muro dove c'era più ombra. All'altezza di Via Cavour con un paio di salti veloci fece la gimkana nel caos di Piazza dei Cinquecento tra autobus di linea, tassisti schizofrenici e guidatori di provincia imbranati.
"Salvato il culo anche questa volta", pensò.
Dopo un po' che gironzolava tra i marciapiedi dei treni in partenza s'era già stufato dello spettacolo. Si trattava di un vecchio copione già visto mille volte: padri in testa, carichi di valige e pacchi, seguiti da madri che strillano e ragazzini che seguono sbuffando e camminando pianissimo.
Era arrivato al marciapiedi del binario 5, dove non pensava che a quell'ora fosse pronto il suo treno. Invece, con sua enorme sorpresa, il Regionale Roma-Pisa era già sul binario a disposizione dei viaggiatori. Guardò il suo orologio.
"Manca ancora un'ora e mezza. Quasi quasi mi faccio una dormita, forse è quello che mi ci vuole per combattere lo stress di questa giornata speciale".
Risalì il treno fino al quartultimo vagone, il suo preferito, perché fermava davanti al bar della stazione d'arrivo: un caffè freddo d'estate, un cappuccino il resto dell'anno e poi di corsa al parcheggio ad infilarsi dentro la sua Alfa un po' vecchiotta e via di gran carriera fino a casa. Monotona conclusione di una serie di giornate tutte uguali, ormai da quasi tre anni e mezzo.
"Mi sa che si è spezzata la monotonia", si disse.
Sedette nel solito posto all'inizio della vettura, il più vicino che c'era all'uscita, accanto al finestrino, col viso rivolto alla direzione di marcia.
Sentì il sonno piombargli addosso. Chiuse le palpebre e dopo un attimo già dormiva. Un sonno agitato con immagini veloci e convulse che gli si inviluppavano nella mente sovrapponendosi le une alle altre, come gli era già capitato quando aveva avuto la malaria con febbre altissima. Anche senza il febbrone, quindi.
Sognò infine una rapida sequenza molto chiara: un losco individuo, che voleva sabotare il treno, nascondeva un grosso zaino contenente sicuramente esplosivo sotto il sedile di fronte al suo. Gli vede introdurre un cell nello zaino e collegarlo con dei fili elettrici.
"Un detonatore", pensa. "Sto sognando un terrorista che prepara un attentato".
L'idea gli fluttua nella mente mentre il terrorista scende dal vagone. Un sogno limpidissimo. Troppo limpido: forse ha veramente intravisto qualcuno attraverso le palpebre semichiuse.
Pensiero lacerante.
Un attimo dopo era sveglio.
Sotto il sedile di fronte al suo lo zaino che aveva visto in sogno.
Socchiuse gli occhi e rivide le immagini come in un remake al rallentatore: una figura d'uomo di spalle, indossava un giaccone di nappa grigia, col bavero alzato; capelli biondi, lunghi, tirati su sotto un berretto scuro. Appoggiava lo zaino con cautela, collegava il telefonino a un detonatore, si allontanava silenziosamente.
Preso da un impulso improvviso si alzò dal suo posto, afferrò lo zaino e risedette stringendoselo al petto. Cominciavano ad arrivare i primi viaggiatori. Chiuse gli occhi ascoltandone solamente lo scalpiccio lungo il corridoio. Una strana abulia si era impossessata di lui: stringeva quello zaino al petto e gli sembrava di sentirne attraverso i battiti del suo cuore. Toccava con le dita la tela grezza dello zaino, di minuto in minuto andava convincendosi di tenere in grembo un ordigno di morte, ma non gli veniva di prendere nessuna iniziativa.
Il tempo passava e il vagone era già quasi pieno delle solite facce. Qualcuno adesso gli sorrideva. Un ragazzo si affacciò a un finestrino.
-Dai, corri! -gridò- Tra un minuto partiamo.
Dei tacchetti picchiettarono veloci in avvicinamento. Entrò una ragazza trafelata.
-Ciao Fede, lo salutò.
Una sua vecchia storia.
Scattò come colpito da una scarica elettrica e schizzò fuori dal vagone col suo zaino in braccio. Lo depose in un cestino dei rifiuti, proprio lì di fronte, spingendolo con forza verso il fondo e si volse per rientrare nel vagone. Tra pochi secondi si sarebbero richiuse le porte; il capostazione aveva già il fischietto tra le labbra.

Un lampo giallo riempì l'aria. Immerso in quella luce accecante Federico rimase un attimo come sospeso, poi udì lo schianto dietro di sé e vide lo sfacelo davanti ai suoi occhi. Vibrò tutto e tutto si decompose: corpi, lamiere, bagagli e oggetti, mentre un'ondata di fumo nero dall'acre odore di bruciato ricopriva tutto.
Come è violento e disperato il suono del silenzio.
Appena il fumo prese a diradarsi, in un'atmosfera sospesa da cui ogni rumore era scomparso, Federico vide l'entità dell'orrore in mezzo al quale era precipitato: corpi morti e brandelli di corpi morti nelle posizioni più sconce; due vagoni sventrati e attraverso i rottami lembi di vite distrutte.
Cominciò a sentire lamenti, poi urla, maledizioni, invocazioni di pietà a Dio e ai santi, e dopo un po' in quel tratto del marciapiedi era tutto un correre e rincorrere, un vai e vieni di gente urlante con le mani nei capelli e gli occhi sbarrati.
L'unico immobile era Federico. L'unico illeso in quel mare di sangue fresco era lui. Cominciava lentamente a rendersene conto. Si palpò dappertutto: petto, pancia, braccia, cosce e gli sembrò di avere tutto sano e di non sanguinare.
"Perché a me non è successo niente?", si chiese.
Eppure era stato il più vicino all'esplosione. Aveva avvertito solamente un po' di calore dietro la schiena, ma non si era sentito nemmeno scosso dallo spostamento d'aria della deflagrazione come tutti gli altri sul marciapiedi, che aveva visto volare come stracci vecchi.
"Devo sparire di qui", si disse. "Ci sarà pure qualcuno che mi ha visto mentre deponevo lo zaino nel cestino dei rifiuti; non sono mica morti tutti".
-Dacci una mano, biondo! -gli gridò uno dei primi soccorritori.
Pensò che gli conveniva fare la faccia atterrita e scappare come alcune donne sul marciapiedi opposto, che correvano urlando istericamente.
"Ma non mi devo mettere a correre, non devo dare a nessuno l'impressione che sto scappando", si impose. "Movimenti lenti e faccia inorridita. Quel che conta è allontanarsi da qui".

5 commenti:

  1. Ciao Enzo, rieccomi. Scusa la mia latitanza ma come ti ho scritto da me è un periodo molto "pieno". Sappi che anche se non commento, leggo sempre, anzi da due sere molto di più... Sto cercando nel tuo fantastico pozzo di poesie una da dedicare ad un mio caro amico. So bene che a voi scrittori le richieste non sono gradite, quindi cercherò senza domandare e prima o poi troverò quella che va bene per la mia dedica.

    Ciao carissimo. :)

    LeNny.

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  2. Spero di avere un po' di tempo stasera: ti invio via mail una silloge di poesie, scritte in un arco piuttosto recente, così potrai scegliere meglio.
    Mi fa piacerone piacerissimo che tu cerchi fra le mie poesie per trovarvi una dedica, cavolo, non mi era ancora capitato! Mi fai un gran bell'onore.
    Ciao, fratellino, ciao :)))

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  3. E dove dovevo guardare se non da te? :)

    Grazie mille, fai con calma. :D

    Ciao. :)))

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  4. Tremendo e repentino transito dalla "normalità" (che è già incubo?) all'incubo al quadrato del licenziamento, all'incubo al quadrato del cubo dell'attentato... Forse solo un po' poco credibile la reazione del protagonista nei confronti dello zaino: va bene il panico, ma credo che chiunque penserebbe solo a:
    1 scappare il più lontano possibile
    2 dare l'allarme per far scappare anche gli altri...
    Quando se l'è stretto al petto, mi ha fatto pensare che avesse deciso di farla finita così...
    Comunque sei un grande artificiere come sempre: sono fuochi artificiali anche le tue parole scritte...

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  5. Vero !. e 2.
    Però se fosse scappato a gambe levate FG sarebbe stato un comune mortale e non il personaggio di un romanzo.
    Qualcosa deve succedere e lui deve trovarsi al centro dell'azione perché il romanzo abbia un inizio e un tema.
    Per lo stesso motivo -abulia- non allarma nessuno.
    Mi garba l'idea dei fuochi artificiali.
    Sei sempre conciso e fulminante tu.

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