Ultima puntata
Verena Mutig iniziò quella sera stessa a gettare le basi di quel nuovo romanzo. Per un inconscio istinto di sopravvivenza aveva una gran fretta di finirlo; non aveva ancora deciso cosa raccontare e cosa no, ma attese che l'ispirazione le arrivasse col tempo.
Tre mesi dopo Esther Samenberg fu ricoverata nella clinica del suo amico oncologo: non parlava quasi più e aveva lunghe pause di torpore, durante le quali a stento si capiva se respirasse ancora. Le ultime settimane entrò in coma irreversibile, ed esattamente sei mesi dopo la sera delle sue grandi rivelazioni a Verena il suo cuore cessò di battere.
Tornata a casa dal rito funebre Verena capì di avere a lungo interrogato la sua coscienza, troppo a lungo, senza voler capire che nel suo cuore e nella sua mente già da tempo era maturata la decisione di raccontarla tutta la verità; di raccontare tutto di Isaia Samenberg e della sua scoperta del magnetismo tra gli universi sopra e sotto quello nostro, che se cade in modo diverso sul mondo manda a spasso il Giappone per mare come un incrociatore senza timone, ricopre di ghiacci l'equatore e di sabbia del deserto tutta quanta l'Antartide; e che tutte queste pazzie stavano scritte sotto un Picasso abilmente falsificato, che chi voleva poteva trovare delicatamente imballato da una ditta francese a Harrisburg, in una soffitta della villa di un vecchio glorioso soldato colpevole di bigamia e forse anche di mania di grandezza. Amen.
Verena fu felice di aver preso una decisione da normalissimo essere umano, e concluse la sua opera raccogliendo tutto in otto dischetti, che contraddistinse dal primo all'ultimo con le prime otto lettere dell'alfabeto greco, dalla Alfa alla Thêta cioè, per distinguerli da quelli che contenevano gli appunti originali, che Esther aveva numerato da 1 a 11.
Fu pronta in meno di un anno e, dopo aver telefonato al suo editore annunciandogli il suo prossimo arrivo, partì da Roma alle sette del mattino con la sua auto perché non si fidava di spedire il materiale per posta. Portò soltanto una valigetta col minimo necessario e due buste contenenti i suoi dischetti e quelli di Esther. Raggiunse l'autostrada A1 in meno di un'ora e diede subito gas perché l'appuntamento a Milano con l'editore era per le quindici e voleva prima andare in hotel a farsi una doccia.
*
Cominciarono alle undici e un quarto ad arrivare alla Centrale della Polstrada di Firenze le telefonate degli automobilisti che avevano assistito allo spettacolare incidente. Le due pattuglie della stradale inviate sul posto sapevano che era successo tra l'uscita di Roncobilaccio e quella di Pian del Voglio, prima della galleria, come avevano detto quelli che sostenevano che la Mercedes viaggiava diretta a Bologna; dopo la galleria, come invece dicevano altri che erano convinti che l'auto fosse diretta a Firenze. Unica cosa certa: la macchina era volata giù da un cavalcavia e si era schiantata accanto a un pilone di cemento dopo un volo di settanta metri. Le due pattuglie sbagliarono a imboccar strade un paio di volte, ma finalmente arrivarono sul posto.
Della giovane donna al volante c'era ben poco da riconoscere. Doveva aver avuto un malore, perché quando riuscirono a ricostruire la dinamica dell'incidente in base alle raschiate lasciate dalla carrozzeria sull'asfalto e sul guardrail, si capì che la guidatrice viaggiava diretta al Nord, e che l'auto improvvisamente sbandata aveva saltato lo sbarramento centrale tra le opposte corsie, attraversato diagonalmente la carreggiata diretta a Sud e dopo aver saltato anche la protezione esterna era precipitata nel vuoto.
"Sembrava che qualcuno avesse dato un gran colpo allo sterzo, dissero alcuni testimoni; è schizzata via acquistando sempre più velocità dopo la sbandata".
In effetti non c'era alcuna traccia di frenata. Motore, sterzo, freni e sospensioni erano in ordine; la donna era morta sul colpo in seguito all'urto. Non era possibile andare oltre l'ipotesi del malore, ma non si poteva escludere un colpo di sonno, o forse era stata solo la volontà del destino.
Le pattuglie raccolsero tutto quello che trovarono in un pacco; due giorni dopo il contenuto era tutto sul tavolo di una giovane ispettrice. A parte gli effetti personali e i documenti c'erano solo due buste pieni di dischetti: per l'esattezza una ne conteneva undici, numerati progressivamente partendo da uno; l'altra conteneva otto dischetti con sopra scritto a mano Verena Mutig-Alfa e poi di seguito, seguendo l'alfabeto greco che l'ispettrice conosceva, fino all'ultimo dischetto Verena Mutig-Thêta.
L'ispettrice prese il primo di questi ultimi e lo inserì nel suo PC; cercò di aprirlo, ma era vuoto, e così via tutti gli altri contenuti in quella busta. Che razza di scherzo è questo? Si domandò la giovane ispettrice di polizia. Inserì comunque anche i dischetti coi numeri progressivi della seconda busta, non nell'ordine numerico ma così come le venivano fuori. Anche questi, manco a dirlo, erano vuoti, e la giovane ispettrice stava per rimetterli nella loro busta quando si accorse che quello col numero uno le era scivolato sotto le carte che aveva sparse sopra la scrivania.
Sarà certamente vuoto anche questo, pensò la ragazza, ma per scrupolo lo infilò nel computer, e quasi per un miracolo nello spazio "nome del file" comparve un titolo: "Dopo la morte di A.".
C'è un morto, pensò l'ispettrice, e speranzosa fece clic sul titolo del file.
Filename: DOPO LA MORTE DI A.
Mentre Alessandro moriva a Babilonia nel 323 a.C., attorno alla sua tenda stava acquartierato il resto dell'esercito che tutto aveva vinto al suo comando: poco più di seimila uomini. Già sufficientemente ricchi per essersi divisi un bottino di cinquantamila talenti dopo la battaglia di Arbela, attesero in rispettoso silenzio la morte e i funerali del loro re. Dopodiché si spartirono i tesori che ancora avanzavano, e una volta sciolti i reggimenti e le brigate si divisero in tribù, sotto tribù, gruppi e gruppuscoli preparandosi a tornarsene a casa.
Parecchi di loro rimasero lì per sempre, sepolti sotto dei massi, perché scoppiarono risse furibonde per invidie e vecchi rancori con morti e mutilati. Tanti creparono strada facendo; molti si ammogliarono con le bellocce donne assire e persiane; qualcuno più fedele o di bocca meno buona dei camerati tornò alle mogli lasciate in Macedonia una decina di anni prima. Di tutti quei soldati i cronisti del tempo furono in grado di dare notizie sicure fino al loro ritorno in patria; dopo se ne disinteressarono perché non avevano più valore di notizia da prima pagina, e anche a me non interessano più. Proprio di tutti quei soldati, come ho detto sopra, i cronisti non ce la fecero a conoscere la fine, e questo va precisato: di cinque di loro, un colonnello e quattro capitani, che si mossero nottetempo appena morto il re insieme a due giovani donne fenice, si perdono quasi subito le tracce. Una delle due donne era incinta, e dato che era stata l'amante del re quello che dopo poco avrebbe partorito doveva essere il figlio di Alessandro. La donna mise al mondo un bambino sordomuto, ma di straordinaria bellezza, con un occhio nero e uno azzurro, e nessuno alla vista di quel marchio di fabbrica osò più mettere in dubbio l'origine regale del marmocchio. Come si è detto, dei sette più uno, (o per meglio definire, dei 5+2+1, anche se puzza di modulo calcistico), non si seppe più nulla, ma ricompaiono qua e là nel corso dei secoli in modo però assai nebuloso, almeno fino a Auschwitz, dove qualcuno giura di averli visti uscire vivi da una camera a gas, e altri invece sono convinti che fossero in uniforme da SS, compreso il bambino.
Di questo gruppo di eroi-carogne e di puttane-sante e del loro bastardo si occupa il libro che sto per scrivere. Unica notizia certa: i cinque ufficiali erano tutti nati a Pella, e appartenevano alla stessa brigata di cavalleria con la quale Alessandro combatté gloriosamente a Cheronea nel 338 a:C.. Stesso squadrone di Alessandro, furono sempre fianco a fianco con lui, la sua guardia del corpo per essere esatti, i suoi amici più fidati.
Le due donne erano scampate alla distruzione di Tiro, e nel massacro ebbero salva la vita per la loro bellezza. Erano sorelle gemelle, identiche come due gocce d'acqua. Alessandro le amò entrambe, come era facile immaginare.
Bella storia, pensò la giovane ispettrice, ma non interessa per la soluzione del mistero di questo incidente. Si sentì a posto con la coscienza; mise le buste coi dischetti di nuovo dentro il cartone insieme ai documenti e agli effetti personali; chiuse il cartone e vi incollò sopra di traverso un'etichetta dove scrisse con un pennarello: "Da destinare ai parenti".
Rimise il cappuccio al pennarello e passò alla pratica successiva.
F I N E
Anche se con la pausa estiva avevo perso un pò il filo della storia (ripreso rileggendomi alcune puntate "vecchie"), il racconto è molto bello e mi è piaciuto nonostante la delicatezza dell'argomento trattato in alcuni passaggi. Come sempre sei stato grande, bravo Enzo. :)
RispondiEliminaUn salutone. :)
Ciau.
Hai ragione, fratellino, era troppo lungo per un blog. Ne terrò conto in futuro.
RispondiEliminaGrazie per i tuoi apprezzamenti, sempre graditi.
Ciau. :DDD
Direi degna conclusione di una storia coi controfiocchi, amico mio.
RispondiEliminaMa l'hai già proposta, a qualche editore?
L'ho proposta insieme ad altri racconti, più o meno lunghi. Storcono la bocca dicendo che le raccolte di racconti sono i libri meno letti nella Bella Italia. In pratica ti dicono sempre: "ma non ce l'ha un romanzo?".
RispondiEliminaOppure, peggio: "non potrebbe gonfiarla un po' e portarla sulle 120/150 pagine?".
Sai quello che succederebbe in quel caso, vero? Una bella storia diventa quasi sempre una prolissa porcata.
Comunque un tre o quattro racconti di buon livello vorrei presentarli a qualche editore.
Vedremo.
Grazie a te per l'incoraggiamento.