venerdì 3 febbraio 2012

KAÌ TÁ LOIPÁ

-Rispondi tu, che io ho le mani sporche di grasso.
Lasciò squillare il telefono ancora per un po' finché smise. Ma subito ricominciò: doveva essere qualcuno che sapeva che erano in casa, Maurizio per esempio.
Guardò sul display: un numero mai visto prima. Telefona da casa di un suo amico, pensò, o da una discoteca.
-Che c'è? Gridò dentro con rabbia.
-L'ingegner De Metrio?
Una voce nasale, brutta a quell'ora.
-Sì. Chi è lei?
-Sono il vice commissario Cossu del commissariato di Monte Sacro. Ho una brutta notizia: suo figlio...
-Ha avuto un incidente?
-In un certo senso.
-È ferito gravemente?
-Mi spiace molto, ma suo figlio è morto.
Non è vero, pensò: è uno scherzo; uno scherzo del cazzo, ma è uno scherzo.
-E come sarebbe successo?
-Si è suicidato.
-Stronzate...me lo passi e la faccia finita.
Un breve silenzio dall'altra parte, poi la voce di Maurizio molto bassa e seria.
-Mi servono soldi, papà.
-Avevi bisogno di questa pagliacciata?
-L'idea non è stata mia.
Dopo un attimo di silenzio:
-Sei ancora lì, papà?
-Insomma cosa cerchi a quest'ora della notte?
-Mi servono soldi, ti ho detto.
-Quanto?
-Più o meno...settanta mille, papà.
-Ti ha dato di volta il cervello?
Un mucchio di rumori e di voci indistinte.
-Sono di nuovo io, ingegnere.
-Il vice commissario Cossu?
-Mi chiamo così, ma non sono un poliziotto.
-E allora?
-Suo figlio ci deve settanta mille.
-Perché ve le deve?
-Se le è giocate...e ha perso.
Aveva riattaccato.
-Chi era? Era Maurizio?
Stava sulla porta del bagno, con le gote e la fronte spalmate di crema verdastra. Occhi sgranati, dritti dentro i suoi.
-No. Un errore.
-A quest'ora della notte?
Squillò di nuovo il telefono. Aprì al volo il contatto.
-Allora?
-Sono Cossu. Trovi i soldi, ma solo contanti, capito?
Andò nel corridoio; abbassò la voce mentre sentiva i passi di lei che lo seguivano.
-Guardi che io tutti quei soldi non ce l'ho.
-Li trovi.
-Ma dove li trovo a quest'ora?
-Oggi è martedì: per sabato deve averli trovati, altrimenti...
-Altrimenti cosa?
-Le rimanderemo indietro suo figlio un po' per volta. Preferisce un orecchio oppure un dito?
Sentì gelarglisi il sangue.
-Sabato, ha detto?
Sabato; e si ricordi che accettiamo solo contanti, niente assegni.
Riattaccò.
Lei lo tirò per un braccio, girandolo verso di sé.
-Chi vuole soldi da te?
-Aspetta un attimo.
Rifece il numero rimasto sul display.
Tre squilli.
-Non si azzardi più a rifare questo numero, se non vuole che glielo ammazziamo subito.
-Ma come faccio ad avere contatti con voi?
-Non le servono contatti. Sabato la richiamo io.
Riattaccò.
-Adesso mi dici finalmente a chi devi dare soldi?
Era diventata aggressiva. Lo teneva fermo per un braccio.
-Non devo soldi a nessuno io.
-Ah sì? Ti chiedono soldi a quest'ora, tu non li mandi affanculo e a me dici che non li devi dare a nessuno?
La guardò e tacque. Non era facile dirle come stavano le cose. Le sarebbe venuta la solita crisi di pianto.
-Mi vuoi rispondere? Chi era? Una delle tue vecchie amanti? Una nuova? Ti ricatta?
-Non era una donna.
-È il marito che ti ricatta?
-La cosa non riguarda me.
-E telefonano a te di notte?
-Riguarda Maurizio.
-Cosa?
La voce le si era strozzata in gola.
-Cosa diavolo dici?
-Era un tizio che telefonava da una bisca clandestina, suppongo. Maurizio ha perduto un'ingente somma e vogliono i soldi da me.
-Quanto?
-Una barca di quattrini.
-Quanto?
-Settantamila, e se non glieli diamo faranno del male a Maurizio.
La donna sedette su una sedia. Aveva preso una bella botta in faccia.
-Non è un problema per te, vero?
-Certo che lo è in questo momento. Sono venti stipendi lordi dei miei operai.
-Lavori con tre banche, potrai andare in rosso almeno con una.
-Giulia, siamo sempre in rosso: con la crisi che c'è in giro i fidi sono stati ristretti.
-Chiedi un favore a Giovannini, è il tuo migliore amico.
-Lui è solo il direttore di una filiale. Non può fare miracoli.
-Insomma non vuoi provare.
-Non capisci perché non sai. Siamo alla terza settimana del mese: ci sono gli stipendi del personale, una bella botta per sessantadue tra operai e impiegati; stanno arrivando alcuni assegni, non so più quanti, firmati da me per somme importanti, che vanno onorati, più una ventina di tratte accettate dei nostri soliti fornitori e i castelletti di sconto sono pieni. Da dove li prendo adesso questi soldi?
Giulia si alzò e sparì in camera da letto. Ritornò con una busta rossa nelle mani.
-Qui ci sono quattromila euro. Volevo comperarmi qualcosa. Tu non hai niente in cassaforte?
Andò nello studio; spostò il quadro del Favretto e aprì la piccola cassaforte a muro. Ne tirò fuori un pacchetto di banconote; le contò.
-Poca roba. Prendo seimila, così fanno diecimila coi tuoi.
-Vedi che ce la possiamo fare?
-Mancano sempre sessantamila.
-Non fanno sconti?
-Non se ne parla nemmeno, Giulia. Quella è gente che non scherza: vogliono tutto entro sabato e niente assegni.
-Pensa allora velocemente a come trovarli.
La guardò. Non la conosceva così, mai però sie erano trovati in quella situazione.
-Ho tanti amici. Ho fatto favori a tutti, qualcuno di loro mi aiuterà, stai tranquilla.
-Allora domattina ti attacchi al telefono e trovi questi soldi maledetti.
-Niente telefono: queste cose vanno fatte di persona e in gran segreto. Adesso mi faccio una doccia e poi parto per Milano.
-Non vieni a dormire?
-Non chiuderei un occhio, poi è già mercoledì e il tempo volerà da adesso a sabato. Avrei però preferito sentirti dire un paio di parole di biasimo per questo figlio scapestrato che hai messo al mondo.
-Adesso conta trovare i soldi, poi vedremo. Comunque non è solo colpa mia se lui è così viziato: siamo stati tu ed io a dargliele sempre tutte vinte.
Lui afferrò il telefono. Inutile insistere su quel tasto: Giulia era un muro di gomma per quel che concerneva le responsabilità con Maurizio.
-Telefoni a quella gente?
-Me lo hanno proibito.
-Allora a chi?
-Alla Rossini. Dovrà far tutto da sola per un paio di giorni.
Il telefono squillò a lungo prima che la donna rispondesse. Non aveva la voce di chi si è svegliata di colpo, ma di chi ha fatto una corsa.
-Mi perdoni, Silvia, ma era urgente. Per qualche giorno non verrò in ditta.
-È successo qualcosa? Sta male?
-Si tratta di una questione di famiglia che non posso rimandare. Disdica tutti i miei appuntamenti per il resto della settimana. Trovi lei scuse accettabili.
-Non si preoccupi, ingegnere. Disdico tutto e col commercialista me la vedo io.
-Grazie, Silvia.
-È tutto, ingegnere?
-È tutto.
-Sicuro che sta bene?
-Sicurissimo, Silvia. Buona notte.

Alle sette colazione al Pavesi di Firenze Nord. Alla fine Giulia lo aveva convinto a farsi qualche ora di sonno. Aveva rifiutato la sua offerta di vendere qualche gioiello a patto che lui vendesse qualcuno dei suoi costosissimi orologi da polso, magari il mitico cronografo della Lange & Söhne, che da quando lo aveva comperato teneva sempre in cassaforte e che avrebbe risolto tutti i guai, ma da quell'orecchio lui non sentiva.
Un cappuccino, due brioche, il pieno di benzina e poi via: il suo amico Michele Rauti lo aspettava alle 10 nel suo studio notarile in Piazza Diaz.

-Ti faccio un assegno a un mese, dai.
-Sessantamila in contanti? Sei matto? Per avere tutti quei soldi occorrono quattro giorni come minimo. Le banche non sono più quelle di una volta. Ti fanno un sacco di domande e alla fine ti capita addosso la Finanza.
-Fammi un assegno. Sistemo tutto con Giovannini a Roma.
-Non posso disporre di somme così ingenti. Sto facendo il garante per un mio cliente importante. Sei capitato in un momentaccio. Ma poi chi ti ricatta? A me puoi dirlo.
-Nessuno mi ricatta, mi serve liquidità.
-Valla a raccontare ai passeri. Un'altra storia di donne? Paolo, finirai male. Alla nostra età si cominciano a tirare i remi in barca.
-Non c'è nessuna donna dietro questa storia.  Mio figlio si è messo nei guai.
Gli raccontò tutto, ma Michele non gli credette. Soprattutto non scucì l'assegno.
-Ti do quello che ho in cassaforte; non sono soldi miei ma posso tirare avanti per una settimana o due. Fammi un assegno a 15 giorni.
Contò 7.500 euro.
-Ci aggiungo un mio assegno da 2.500, che ti vai a incassare alla Commerciale qui all'angolo. Se fanno storie fammi telefonare.
Gli aveva dato un assegno postdatato ed era uscito col cuore stretto in una morsa. Se Michele non poteva figuriamoci gli altri.

Venerdì sera, nella stanza di un albergo di Napoli, aveva fatto il bilancio della sua crociata.
Dopo Michele Rauti anche l'avvocato Luca Goldoni, che aveva lo studio in Piazza della Scala, non gli aveva dato nemmeno un centesimo. Bell'amico.
Giovanni Frisone, principe del foro di Torino, gli aveva messo in mano quattro pezzi da 500 e liquidato molto freddamente.
-Me li ridai quando ripassi da Torino.
Aveva pensato anche lui ad una sporca questione di puttane, come l'aveva definita.
Giovedì mattina, mentre pistava in autostrada a spron battuto diretto a Napoli, all'indirizzo che Frisone gli aveva suggerito, uscì a Firenze Sud in preda ad una ispirazione.
Trovò il numero telefonico di Carmen sulla guida: lo aveva tolto da tempo dal suo cellulare, troppo pericoloso anche sotto falso nome.
Provò due o tre volte senza ottenere risposta. Andò allora direttamente alla sua abitazione.
-Posso salire da te?
Era rimasta un attimo senza fiato: dopo due anni che era tutto finito e senza darle mai nemmeno un cenno di vita, adesso stava lì sotto. Gli aveva aperto.
-Sto nei guai.
-Questo lo avevo capito.
-Hai ancora quella cassetta di sicurezza nella tua banca?
-Di quanto hai bisogno?
-Quarantottomila.
-Non ci arrivo. Mi vesto e scendo: ti do quello che c'è.
-Non mi servono per una donna.
-Ti prego: non dirmi niente. Non saresti qui a chiedere la carità se non fosse grave la faccenda.
-Maurizio ha giocato e perduto e sta nei guai. Ti ricordi di Maurizio?
-Smettila di fare il cretino. La nostra relazione è durata otto anni e tu mi chiedi se ricordo tuo figlio? Ricordo tutto, ogni giorno purtroppo. Adesso lasciami vestire e fatti un caffè.
Mezzora dopo era ritornata.
-Venticinquemila.
-Ti faccio un assegno a venti giorni.
-Niente assegni. Mi riporti il contante quando li metti insieme.
-Ti fidi?
-Mi fido.
-Non ho parole per ringraziarti, Carmen.
-Allora fanne a meno.

All'indirizzo di Napoli venerdì pomeriggio abitava la signora Baraldi, un donnone sulla sessantina.
-Chi la manda da me?
Le diede la busta avuta da Frisone. La donna inforcò gli occhiali e lesse attentamente.
-Garantisce lui che la sua firma è buona. Quanto le serve?
-Ventitremila a fronte di un mio assegno a un mese.
-Mi faccia adesso un assegno di trentamila a venti giorni.
-Così tanti interessi per tre settimane?
-Perché la manda l'avvocato Frisone, altrimenti le sarebbe costato il doppio.
Aveva staccato l'assegno senza più fiatare.
La signora Baraldi era andata in un'altra stanza e tornata coi soldi in fogli da cento.
-Li conti bene.
-A posto, aveva concluso lui ed era uscito.
Fine della missione.

Era rientrato in casa alle due di notte.
Giulia dormiva un sonno agitato. La scosse. Lei volse la testa verso di lui senza realizzare cosa accedesse; poi di colpo saltò su e si avvinghiò al suo collo.
-Sono stata tanto in pensiero.
-Ti ho telefonato spesso e ho risposto ai tuoi messaggi.
-Ero in pensiero lo stesso. Pensavo non mi dicessi tutta la verità.
-Mai stato tanto sincero.
-Hai concluso?
-Fino all'ultimo centesimo. Entro venti giorni, però, arrivano due assegni.
-Li pagheremo. Però è andata male con tutti i tuoi amici.
-Non me lo sarei mai aspettato.
-Adesso vieni a letto.
-Non ce la farei a prendere sonno. Aspetto la loro chiamata nel mio studio.
Ma poi si era addormentato vestito sul letto. Lei lo aveva coperto dopo avergli tolto le scarpe.

Si erano fatti vivi prestissimo. Sempre quel Cossu della malora.
-Allora, ingegnere, che notizie mi dà?
-Ho i settanta mille in contanti.
Aveva sentito prorompere una gran risata dall'altra parte.
-Complimenti, ingegnere.
-Mi risparmi il suo sarcasmo. Dove glieli devo portare?
-Glielo faccio dire da suo figlio.
Sentiva delle gran risate. Ridevano tutti i bastardi, avevano fatto il colpo.
-Davvero hai tutti i soldi, papà?
Rideva anche lui. Gli venne su una rabbia feroce.
-Cos'hai da ridere, imbecille?
A Maurizio venne un attacco di tosse.
-Sa, ingegnere, che mi ha sbalordito?
-Di nuovo lei?
-Ero convinto che non sarebbe mai andato in giro per l'Italia a chiedere quattrini. Magari avrebbe tirato fuori dalla cassaforte quel suo favoloso "Cabaret Tourbillon" della Lange & Söhne.
-Gliene ha parlato Maurizio? Non sa proprio tenere la lingua a posto.
-Macché! Me lo ha fatto vedere proprio lei, non ricorda?
-Ma cosa si sta inventando? Io non la conosco Cossu.
-Non mi chiamo Cossu, ingegnere: sono Giorgio.
-Giorgio? Quale Giorgio?
-Giorgio Di Patti, il figlio maggiore del suo amico urologo.
E giù una gran risata.
-Ma cosa diavolo dice questo qui?
-Che sta succedendo, Paolo?
-Dice di essere Giorgio, l'amico di Maurizio.
-Il figlio di Ugo? Dammi qui sto telefono.
-Stammi a sentire, papà...
-Sono io. Che hai combinato?
-Era tutto uno scherzo, mamma. Avevo fatto una scommessa.
-Hai sentito, Paolo? Aveva fatto una scommessa con Giorgio.
Lui riagguantò il telefono con rabbia.
-Una scommessa, hai detto?
-Sì. Lui diceva che saresti andato a chiedere subito i soldi a suo padre, oppure ti vendevi il tuo prezioso orologio. Bravo, papà, mi hai fatto vincere una vacanza di una settimana alle Maldive.
-E dove sei stato tutto questo tempo?
-A casa loro, nella loro villa di Torvajanica.
-Ti conviene restarci ancora sei mesi, perché se ti agguanto ti faccio a pezzi.
Sbatté via il telefono.
-Adesso calmati, Paolo, poi parliamo. Bisogna cambiare qualcosa con questo figlio.
-Cominciando da tutte le serrature di casa nostra.

Bevvero un caffè nero molto forte; ne avevano bisogno.
-Ha qualcosa di positivo questa storia, Paolo?
Ci pensò su, ma solo qualche attimo.
-Abbiamo scoperto di avere un figlio stupido, un ragazzino viziato, ma non un delinquente.
-Questo è buono; poi?
-Che tutti gli amici che ho vanno bene per passarci una serata insieme. Mai più fidarsene.
-Questo non è così buono, ma vai avanti.
-Abbiamo forse ritrovato noi stessi, e questa mi pare una gran cosa.
Lei gli sorrise e gli prese una mano tra le sue.
-Kaì tá loipá non conta niente, aggiunse Paolo.
- Cai cosa?
-Kappa, tau, lambda. Ricordi il greco? Significa tutto il resto.
-Tutto il resto non ha significato alcuno, concluse Giulia. Hai ragione.
Ho anche scoperto che Carmen mi amava veramente, pensò Paolo.
Oramai era tardi, però; questo sarebbe rimasto un suo segreto.










18 commenti:

  1. Caspita che storia lascia con il fiato sospeso

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    1. Storia di figli moderni, parzialmente inventata; anzi me ne ha dato spunto una vicissitudine passata da un nostro conoscente, poi ci ho fantasticato su.
      Fantasticato una settimana, deciso di scriverla esattamente così, scritta in tre ore. Certe cose vanno cotte e mangiate immediatamente altrimenti "si scuociono", come si dice a Roma, e buonanotte.
      Grazie della visita e del commento, Soffio.
      Soffio come brezza?
      Sarebbe carino :)

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  2. Bel racconto Enzo. Good. :)

    E comunque che figlio di cacca... Da sistemare a dovere, altro che scherzo!

    Ciao grande. :D

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    1. Grazie LeNny per avermi letto, e del complimento.
      Figlio di cacca: manda il padre a farsi 3000 chilometri in tre giorni col fiato grosso per l'ansia; gli fa in compenso capire che razza di amici "veri" avesse. Qualcosa di buono i figli ti restituiscono sempre in cambio della vita che gli hai dato e dell'amore che quotidianamente gli dai, anche se certi padri -vedi me- non lo fanno vedere platealmente, e nemmeno sommessamente il più delle volte, come per l'appunto capita a me. Ma io per vizio congenito tratto male chi amo di più.

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  3. Hehehe, grazie a te. Ti leggo sempre e mi piace seguire i vostri commenti. Ci sono sempre anche se non mi vedi. :O)

    Qui fa un freddo cane... Brrrr. Ciao. :)

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  4. Ma io ti vedo, che pensi? Ho gli occhi intraplanetari eheheheh! :DD

    Qui non è un freddo cane, ma un freddo boia. Ciao:)

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  5. Il famoso terzino intercetta la palla con gli occhi e la prende con la testa; la fa scivolare lungo il corpo, per farsi riconoscere da lei, la palla, e quando questa tocca terra gli viene la certezza di poterla dominare, di averla in pugno ... anzi, ai piedi.
    La sfiora appena, all'inizio, i primi tocchi come a dire: adesso io e te ci divertiamo un po', eh, bellezza? Poi caracolla nel campo, appena spruzzato di neve fresca, scartando un paio di avversari poco convinti con noncuranza, senza ansia da prestazione ma con lo stile diretto incalzante e pulito che tanto piace ai tifosi che si preparano ad esultare, dagli spalti.
    Arrivato davanti alla porta vuota, ha un attimo di indecisione: happy end or not happy end? L'indecisione si rivela fatale, e la palla va a fare stoooonghh sulla traversa.
    Il pubblico, esultante con un attimo di anticipo, rimane sconcertato, ma lo perdona all'istante, naturalmente.

    dài, è un commento scherzoso.
    Il racconto è carino.

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  6. "Il racconto è carino".
    Un mio amico -non molto intimo come Adolfo, Paolo e Dario, un amico di biliardo, di pokerate e di bisbocce- s'era preso una cotta per una ragazza di un'altra città. Era sempre là. Un giorno ci annunciò trionfalmente che ce l'avrebbe presentata, e lo fece.
    Dopo mezzora se ne andarono. La sera, appena il nostro amico ci incontrò, ci chiese: "Che ve ne pare?"
    "Carina", rispondemmo ad una voce.
    La ragazza era una cozza.
    Il terzino che scende, la palla sulla traversa, il racconto carino. Maddai! Chissà cosa ti aspettavi e ci sei rimasta male, ma pensavi che se me l'avessi detto ci sarei rimasto basito ed hai fatto una carezza come ad un vecchio cane: hai dimenticato che ai cani il pelo si liscia per il suo verso, non controverso.
    Era un divertissement, non volevo né tediare, né costringere al plauso.
    Grazie lo stesso per la delicatezza.
    Anche questa è una replica scherzosa.:)

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    1. Ma IO NON SONO VOI. Non sono delicata di natura, sono fatta di materiale grezzo.
      Non fa parte del mio stile il "tàia e medèga", A larga ed E stretta, versione brianzola e soft per indicare un benevolo atto di ipocrisia.
      Io se dico carino vuol dire che MI E' PIACIUTO nonostante mi abbia un po' spiazzato il finale, che non è nel tuo stile.
      Carino per me vuol dire commestibilmente gradevole, anzi gradevolmente commestibile, carino per me vuol dire CA-RI-NO. Carino vuol dire che sei sempre so-spet-to-so e pre-ve-nu-to!

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    2. Macché prevenuto, te l'ho detto: per me carino vuol dire una cosa così e basta. Ma intendiamoci tu sei padronissima di esprimere la tua opinione in beata tranquillità. In fin dei conti l'ho indovinato che il finale ti aveva spiazzata, quindi il commento lo hai fatto con un po' di amarognolo in bocca.
      Guarda che non era la risposta alla tua richiesta di "raccontini comici". Mi è venuto in mente così. Ci sono famiglie che si dibattono con figli di quel genere. Volevo scrivere qualcosa di diverso e l'ho fatto.
      Tutto qui.
      Ma ti ho ringraziato pur della tua delicatezza.
      Materiale grezzo tu? Mi pare di aver già detto di essere un plebeo.

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  7. Terzini che carezzano la palla come una vecchia amica ce ne sono stati e ce ne sono pochi. Mi vengono in mente Virgilio Maroso, Giacinto Facchetti, Djalma Santos, Nilton Santos, Roberto Carlos, Maicon e basta. Quelle delizie le riescono a fare certi attaccanti come Eto'o, o ci riuscivano alcuni grandi del passato Maradona, Pelé, Jhoan Cruyff e basta.
    Che sia stato un lapsus freudiano?
    Pensavi a una terzina, forse?

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  8. Io e la mia amica del cuore eravamo innamorate di Cruyff! Ho ancora una sua foto in bianco e nero, ritaglio di giornale! Che CARINO che era!

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    1. Non era carino: era antipatico e col naso per aria; ma era un fenomeno con la palla e senza la palla: bastava vederlo muovere in campo.

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  9. Dimenticavo: il titolo è carinissimo.

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    1. Difficilmente sbaglio un titolo.
      Si trattasse di titoli e basta, sarei lo scrittore di maggior successo.:))

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  10. Ho trovato un po' sconcertante il commento finale del protagonista: "Figlio stupido e viziato ma non delinquente"? Direi che in questi casi sarebbe molto meglio delinquente... Imperdonabile soprattutto la panzana iniziale del figlio morto, roba da farlo crepare d'infarto, quel povero padre, roba da ammazzarli, il figlio testa di minchia e la testa di minchia dell'amichetto suo...
    La scrittura è molto scorrevole e piacevole: anche se in alcuni punti si coglie il fatto che è buttato giù "di getto", al tempo stesso l'insieme dimostra che spesso l'ispirazione torrenziale e improvvisa è quella migliore, una vera magia.

    un abbraccio

    p.s. a me però il titolo non piace: forse perché ho fatto lo scientifico e non mastico il greco... :-))))

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  11. La scrittura di getto -due ore e mezza- ha pregi, pochi, e difetti molti. Li ho notati anch'io, ma non volevo togliere la spontaneità che, secondo me, passava sulla storia: un figlio cretino, amico di cretini, fa uno scherzo cretino. Da quel momento, volere o volare, a quello straccio di padre passano per la testa alla rinfusa una serie di idee, nessuna delle quali è quella vincente. Quindi fare riflessioni o cercare giri di parole mi sembrava inopportuno. Volevo prendere per la gola il lettore e farlo correre col povero padre da un polo all'altro dell'Italiuzza nostra alla ricerca di quattrini. Una furia disumana e senza risultati, se non quello di andare a finire in mano a un'usuraia.
    Volevo far correre il lettore e fargli venire i fiatone per poi sgonfiarlo col finale. Ero certo che qualcuno avrebbe esclamato: mavaff..(io lo avrei fatto), che qualcuno ci sarebbe rimasto un po' male -a dimostrazione che i finali soft non sono mai i migliori- ma che a qualcuno sarebbe magari andato a genio.
    Obiettivo centrato? Forse, non so.
    Penso che, però non farò più un simile esperimento.

    p.s. kaì tá loipá era un modo di dire di noi studenti del classico, con la puzza sotto il naso come tutti gli studenti del classico da che mondo è mondo, per fare selezione, per capirci tra noi, spesso per indicare che c'era uno stronzo fra noi.
    Non riguarda nessuno dei miei affezionati lettori, ma mi è venuto in mente adesso. Ho usato il greco per dare un tono di esotico...fatto male? Forse.

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  12. Nel 1970, con un figlio nato da tre settimane, abitavo e lavoravo a Treviso, in proprio, in società con un "amico". Prodotti da giardinaggio, l'urlo della moda di allora. Il mio socio sparì con la cassa e molto materiale era stato svenduto e da lui incassato, ovvio. C'erano 7 grossi assegni 7 firmati da me in arrivo e non avevo un soldo in banca. In tre giorni e quattro notti ho fatto in macchina, senza sosta se non per fare benzina e mangiare un boccone, i seguenti itinerari: Treviso-Cervignano del Friuli (per deporre moglie e figli tre); Cervignano-Milano; Milano-Torino; Torino-Milano; Milano-Genova; Genova-Torino; Torino-Firenze; Firenze-Milano; Milano-Napoli; Napoli-Roma; Roma-Cervignano del Friuli. Avevo messo insieme i soldi, ma mi ero caricato di debiti.
    Sono passati 42 anni, ma l'incubo di quei oltre 4000 chilometri a tutta callara, come si dice a Roma, non è ancora finito. Mentre scrivevo mi rivedevo al volante del mio Citroen Pallas 21 fumando una sigaretta dietro l'altra.
    Era la fine di luglio; arrivato a casa da mia moglie credevo di averla sfangata, invece un mese dopo moriva mio padre e cominciavano i guai grossi, oltre al dolore immenso di una perdita mai colmata.
    Tutto vero.
    Forse si tratta proprio di lapsus freudiano, avevo voglia di sfogarmi. Chi lo sape?

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