domenica 4 marzo 2012

HO AVUTO UN CANCRO PER UNA SETTIMANA

Andava tutto troppo bene. Scoppiavo di salute; Anna Maria non borbottava mai; Chicco a scuola non combinava più casini; Stefania era felice e contenta con la bimba che le era nata e io avevo cambiato lavoro. Dirigevo corsi di pittura in uno Jugend Zentrum, un centro di ritrovo giovanile per il tempo libero. 
Stavo sempre in mezzo a gente giovane, casinisti contenti di fare casino, proprio come me; colleghi allegri e non invidiosi; un sacco di soldi in più nella busta paga alla fine del mese e avevo lo Chef più babbeo che mi potessi augurare: facevo il beato cazzo del comodo mio, tanto a lui andava tutto bene e mi ripeteva sempre "Sì, Enzo, va bene così, Enzo, tu sei l'uomo giusto al posto giusto", e lui era il Capo giusto per me. Così babbeo che quando si era sposato invece di far prendere a sua moglie il proprio cognome aveva aggiunto quello della moglie al suo, come qui è consentito dalla legge, ma che solo i fessi fanno. Rainer Bauer Gain: lui era Bauer e lei Gain, e soltanto Gain era rimasta, tanto comandava sempre lei. Contento lui e contenti tutti noi.
È stata l'unica volta in cui mi recavo fischiettando al lavoro ogni santo giorno.
Ah, dimenticavo: mi ero di nuovo innamorato di mia moglie, che era veramente caruccia, sì, molto amorevole e amabile, la sua stagione migliore.
Che volevo di più?
Niente. Ma c'era un tarlo nella mia capoccia. Quando le cose vanno troppo bene tu metti il culo al riparo, diceva mio padre. Era lì, nascosto in un angolino del cervello il mio piccolo tarlo, e rosicchiava giulivo pezzettini di polpa cerebrale ogni giorno: cron, cron, cron, cron. Lo sentivo qualche volta prima di addormentarmi; lo ascoltavo un paio di minuti un poco ansioso, poi mi giravo su un fianco e lo mandavo affanculo.
Mangiavo di buon appetito ma non mettevo su un grammo di ciccia, anzi riuscivo di nuovo a infilare due dita tra pantaloni e trippa, cosa che non mi capitava da tempo immemorabile. Mi pesai e vidi con grande piacere che ero calato di due chili e mezzo.
"Merito della mia cucina senza grassi", si vantava mia moglie. Pensai che fosse merito delle sigarette: oramai incominciavo il terzo pacchetto ogni sera.
Ma un campanello aveva squillato brevemente in un angolo del mio cervello e in qualche posto si era accesa una spia rossa: un lampo breve, ma lo avevo captato.
Quando il mese successivo vidi che potevo stringere di un buco la cinghia dei pantaloni tornai a pesarmi: la bilancia mi dava quasi tre chili in meno dall'ultima volta, nemmeno venti giorni prima.
La spia divenne di un bel rosso fisso e il campanello un martelletto che mi batteva nel centro del cranio. Oramai tenevo d'occhio solamente il giro vita dei pantaloni. Senza cinghia me li sarei dovuti tenere con le mani per non rimanere in mutande: insomma ci ballavo dentro come ai bei tempi della mia Università. 
Decisi di cambiare tenore di vita: mangiavo porzioni più abbondanti, bevevo un paio di caffè in meno e portai a 30 il numero delle sigarette quotidiane, limite di un decennio prima.
Due settimane dopo tornai sulla bilancia. Col cuore in gola lessi la cifra: 70,500. In nove settimane ero calato quasi nove chili, etto più etto meno.
Andai dal mio medico di casa senza appuntamento. "Un'emergenza" dissi all'infermiera. Il medico dovette leggermi l'ansia e la paura sulla faccia.
"Devo avere un tumore", gli dissi.
Fece un sorrisetto.
"Dove ha dolori?"
"In nessun posto".
"Ha avuto emottisi? Sangue dal naso? Sangue nelle urine? Nelle feci?"
"Niente sangue".
"Perché pensa di avere un tumore?"
Gli dissi dei chili perduti in nove settimane. Lui rimase a fissarmi per una decina di secondi.
"Venga nel laboratorio che le prelevo sangue per le analisi".
Me ne tirò fuori dieci cc in tre cannule.
"Occorrono sette giorni per queste analisi".
Lessi sul deskop del suo PC la diagnosi che aveva scritto: Krebsverdacht, sospetto cancro.
"Pensa che si tratti di un cancro?"
"È probabile quando c'è un dimagramento massiccio in così breve tempo".
"Dove?"
Si strinse nelle spalle.
"Stomaco, intestini, polmoni forse, visto che lei è un forte fumatore".
Continuò a parlare, ma non lo stavo più ad ascoltare.
Uscii dal suo studio ammalato terminale, assai vicino alla cachessia finale.
Guidai a casaccio per una mezzora. Avevo il cuore che mi rimbalzava dentro la gabbia toracica come la pallina di un flipper.
Un pensiero fisso in testa, una domanda atroce: "Quanto tempo mi resta?"
A casa mia moglie mi aveva preparato l'accoglienza che mi ci voleva: Chicco aveva di nuovo combinato uno dei suoi casini, e lei voleva che lo castigassi subito.
"Adesso proprio no, le risposi; non mi sento tanto bene".
"Cos'hai?"
"Niente. Mal di stomaco, giramenti di testa, roba così".
Incominciò il solito pistolotto contro il fumo, ma io non la stavo a sentire.
"Quanto tempo mi resta? Forse un anno, forse due", ma subito mi appariva un'utopia tirare avanti per così tanto tempo. "Saranno mesi, non di più".
"Mi stai a sentire?"
"Sì, certo che ti ascolto".
"Allora va a parlargli. è in camera sua".
Chicco si aspettava il consueto diluvio di improperi.
Gironzolai per la stanza. Guardai fuori dalla finestra senza vedere nulla. Gli feci una carezza.
"Fai il bravo, non farla più arrabbiare", gli dissi e me ne andai.
Penso che le ore passassero, perché s'era fatto buio, ma per me il tempo si era fermato.
A cena toccai appena un po' di cibo. Mi accorsi che tutta la squadra mi osservava in silenzio.
"Che avete da guardare?"
"Che hai tu piuttosto? Fece Anna Maria di rimando, Sembri uno zombi".
Mi resi conto che non dovevo allarmare la mia ciurma.
"Non ho niente. Sto pensando ad un racconto che voglio scrivere".
"Non deve essere tanto allegro il tuo racconto, papà" disse Alessandro.
"No. Alla fine lui muore".
Andai a letto per ultimo. Mi girai su un fianco senza nemmeno sfiorarla.
"Buona notte".
Non mi fece nemmeno un grugnito per risposta. L'avevo offesa e mi avrebbe messo su un muso di tre giorni, ma non me ne fregava niente.
Dormii poco e malissimo, con un chiodo piantato in testa: "Non arrivo a Natale"
Quando sentii il suo respiro regolare incominciai a girarmi nel letto.
"Warum gerade ich?" Perché proprio io? 
Mi accorsi che pensavo cose tristi, cose brutte che avevo visto e vissuto durante la guerra, e mi accorsi di pensarle in tedesco.
Al lavoro fui sgarbato coi colleghi e mandai a quel paese un paio di ragazzi che mi avevano chiesto qualcosa. Dopo un po' mi giravano tutti al largo. Sentii qualcuno mormorare: "Enzo è incazzato nero". Ma non me ne importava niente. Pensassero quel che cazzo gli pareva, io mi ero chiuso in clinch come un pugile suonato a immaginare meine letzte tragische Stunde, ecco appunto, le mie ultime tragiche ore.
Quando ci lasciammo alla fine della giornata una collega, Christine Schwering, mi sussurrò accomiatandosi: "Fa pace con tua moglie stasera, per favore".
Mangiavo pochissimo, col muso sul piatto; fumavo una Marlboro dietro l'altra. Una sera contai come sempre facevo le sigarette ancora nel pacchetto e mi resi conto con raccapriccio che mi erano rimaste le mie ultime cinque del mio terzo pacchetto.
"Chi cazzo se ne fotte, tanto devo crepare".
Sentivo dolori da per tutto: il torace stretto in una morsa; lo stomaco bruciava; avevo continui mal di pancia; pisciavo roba scura e sporca, "sangue, pensai; è nei reni il figlio di puttana". Avevo pure preso l'abitudine di guardarmi la cacca prima di tirare lo sciacquone per trovarci tracce del mostro, sangue, pezzi di budella o chissà cosa.
Un martirio. A un certo momento arrivai a sperare che fosse rapido e mi portasse via il più in fretta possibile. Purché finisse.
La mattina che mi recai dal mio medico per ascoltare la condanna ero ormai rassegnato e distrutto.
"Negativo. Tutti i valori sono nella norma e non c'è l'agente patogeno di un tumore",
"E i chili perduti?"
"Capita alla sua età. Lei è in andropausa Herr Iacoponi".
Erano le 9,25 del 14 maggio 1989: il mio secondo compleanno.
Uscii all'aria aperta leggero come un passerotto.
Respirai a pieni polmoni. Che giornata meravigliosa!
Mentre allungavo il passo verso casa mi misi a ridere come un ragazzino.
"A Iacopò, sei l'unico caso de cancro che se guarisce da solo in una settimana: ammazzete che culo che ciai!"
Mi misi a correre: volevo raccontare tutto a Anna Maria e spiegarle perché mi fossi comportato così male con lei e con tutti. Se lo meritava, povera anima.

10 commenti:

  1. Titolo forte...

    Ciao Enzo e speriamo che stasera cambi il vento a San Siro. Buona domenica. :D

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    1. Ho una gran paura, fratellino.
      Speriamo che mi sbaglio di grosso...:D
      Buona domenica anche a te.

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  2. "Quando le cose vanno troppo bene tu metti il culo al riparo": mi ha colpito questa frase.

    Alla fine del racconto viene proprio voglia di respirare a pieni polmoni.

    Buona settimana Vincenzo.

    Teresa

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  3. Effettivamente fa riflettere, Teresa, e io l'ho sperimentato sulla mia pelle. Mio padre non era assolutamente un filosofo, e si è goduta la vita con la sua famiglia. Non sparava sentenze, ma ogni volta che dava un avvertimento, ci potevi giurare, si rivelava provvidenziale: mai sbagliato.
    Respirare a pieni polmoni è quello che ho fatto io allora: pensa che per una settimana respiravo piano piano perché convinto di averlo lì il mostro.
    Buona settimana anche a te, Terè.

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  4. A volte servono questi spaventi, per assaporare la rinascita e apprezzare ancor di più il respiro della vita. E' già capitato anche a me. (Ti segnalo un piccolo refuso: veci invece di feci... :D)

    p.s. adesso che l'hai scritto anche tu te lo posso chiedere: cosa diavolo pensa, esattamente, uno scrittore quando scrive "si strinse nelle spalle"? Vuol dire "Fece spallucce?" Vuol dire "Allargò le braccia?" Tutti lo usano e suona pure bene, ma io non ho ancora capito cosa cazzo esattamente vuor dì... :-))))

    Ottimo racconto davvero, comunque.
    Ciao caro amico!

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  5. Grazie per il refuso, provvederò.
    Si rinasce, NIK: è come sentire all'improvviso tutto il valore della vita, che pensavi ti fosse tolta, strappata via.
    Capisci quanto sia importante viverla comunque sta cosa bella che è la vita, ti ci attacchi di più.

    ps. veramente non lo so, ma penso che avvenga quando qualcuno ti fa una domanda inopportuna oppure una domanda difficile cui potresti rispondere, ma se dici una cazzata fai una figura di merda, per cui "ti stringi nelle spalle".
    Vale a dire: è quasi un mandare affanculo chi ti ha posto la domanda.
    Oppure quel movimento indica incertezza nel trovare una risposta.
    Ma tu volevi dire cosa pensa uno scrittore quando la scrive?
    Più o meno: cosa cazzo scrivo per intendere che il tizio non sa dare una risposta? Gli faccio fare una stretta di spalle e chi vuol capire capisca.
    Sono così onesto perché la domanda me la poni tu; non so se risponderei così onestamente a una platea di gente venuta per la presentazione sontuosa di un mio romanzo da parte di una grande CASA EDITRICE.
    Non lo so proprio, e non riesco a immaginarmelo (la presentazione sontuosa della grande CASA EDITRICE, si capisce):)))
    Grazie a te, amico mio.

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  6. Io lo faccio spesso quel gesto, credo come una sorta di tregua mista a rassegnazione, come a dire: voi credete e fate un po' quel cacchio che vi pare, io vado avanti per la mia strada.

    Io invece eccome se ti immagino, davanti alla platea! (... e dietro al tuo inguaribile e mastodontico ego):))

    Veramente pensi in tedesco?
    Non lo sapevo! Quindi pensi in tedesco le cose brutte barra tristi in romanesco le cose allegre e in italiano le cose normali?
    Che storia! E' troppo bello sapere più lingue, quello che non ti viene con una arriva con l'altra!
    Mi sarebbe piaciuto fare il linguistico, in effetti questa storia mi affascinava già a quell'età, ma ai miei tempi i licei linguistici erano tutti privati.

    Ho avuto un'esperienza simile l'anno scorso, con G.
    Quando uscimmo dal Gaetano Pini, dopo il consulto rassicurante con l'oncologo, respirai a fondo riempiendomi i polmoni come se fino a quel momento fossi stata in apnea, e perfino l'aria di Milano centro mi sembrò buona.

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    1. Io pure lo faccio, qualche volta: credo sia quando qualcuno che mi è caro mi ha scocciato e non voglio platealmente mandarlo afc. Naturalmente il significato è: "sti cazzi!".

      Davanti a una platea ci sono stato, per la presentazione di "Martedì", ultimamente. Facevano domande cazzute, da intenditori. Puoi immaginare le risposte del mio enorme EGO: più cazzute delle domande. Vuoi saperne una? Giulia Fabbri alla fine mi ha detto che la gente ci era congratulata con lei per avermi scovato. Sic et sempliciter.

      Quando la cosa è maledettamente seria il 90% penso in tedesco.
      Quando sono profondamente deluso di me stesso e con me stesso incazzato il 98%.
      Quando non voglio coinvolgere la parte di me più ingenua e fanciullesca il 100% (perché quella parla in romanesco solamente).
      Naturalmente quando parlo con tedeschi.
      Le cose da ride solo ner mio dialetto fantastico, unico ar monno, ar monno nfame ma sempre ar più bello che c'è.
      Quali sono le cose normali, Sirvié?
      Ciarisemo co sto normale! :))

      Tu dici: "ho avuto un'esperienza simile etc". No, tesoro: LUI l'ha avuta, anche se non te lo ha detto. Prova a chiedergli adesso come si sentisse in quel periodo in cui temeva che. In latino in questo caso sarebbe stato un "timeo ne"; ma per quel che mi riguarda io non temevo nulla, io ERO STRASICURO di essere vicinissimo a una morte terribile.
      Forse tu hai vissuto accanto a lui la sua esperienza, ma i tuoi pensieri erano costruttivi; quelli di G. sicuramente distruttivi, di se stesso. Chiedi conferma.
      Sì, quando esci fuori RINATO anche l'odore della merda -scusami- è un profumo delizioso.

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  7. Mancava un apostrofo, nel tuo testo, ma ora non ricordo dove. Rilegga, studente! :)

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    1. Grazie assai, professoressa: "Un'emergenza"; ma, mi creda, era un refuso.

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