mercoledì 15 luglio 2009

Ecco il raccontino promesso

Visto che ogni promessa è un debito, lo pago immediatamente.
Il titolo del raccontino è:

UNA RAGAZZA DI NOME GIOVANNA

In nessun posto del mondo i pomeriggi d'estate sono così allucinanti come nel quartiere del "Ghetto" a Civitavecchia. Le mura scrostate delle case si spellano sotto il sole a picco e si mangiano l'ombra, che si fa stretta come una riga di tinta scura; gli alberi si prosciugano addosso al proprio scheletro; la luce rimbalza sul selciato polveroso e secco schizzando in mille forme aguzze, che ti spaccano gli occhi, e l'aria ti dà l'idea di essere una tela trasparente, tirata dalla terra verso il cielo con tale forza che tra poco si scollerà e tu creperai per mancanza di ossigeno.
Ininterrotto il canto malinconico delle cicale. Il resto dei viventi, animali o cristiani, se ne rimane in silenzio, rintanato in qualche buco dove non passa il sole.

Quel giorno c'ero soltanto io, al centro di una piazzetta, a lasciarmi trafiggere dal sole. Ritornavo nella mia città dopo sette anni di astinenza dai parenti più stretti, dagli amici, dalle cose che meglio conoscevo e dall'odore del mare. Ero partito una settimana dopo il mio esame di maturità, senza nemmeno aspettarne l'esito, tanto era andato tutto liscio, anzi in modo piuttosto brillante. Lo scopo dichiarato era di rimettermi un po' dopo le fatiche di quell'esame e conoscere qualche terra straniera.
Un viaggetto di un paio di mesi, dissi a Dario e a Paolo, due dei quattro inseparabili.
"Salutatemi Adolfo, quando torna da Cagliari".
Adolfo era il terzo inseparabile; il quarto ero io.
Di due mesi in due mesi s'erano fatti sette anni: il mondo lo avevo girato, ma non mi sentivo molto migliore. Adesso ritornavo per rimanere, almeno era quello che credevo.

"Per una rimpatriata solenne occorre una festa solenne, esclamò Adolfo pieno di entusiasmo. Occorrono ragazze, whisky, soda e un complessino rock di Viterbo che è uno sballo".
A Viterbo da sballo c'erano solo un paio di ragazze, ricordavo io, ma mi fidavo del mio miglior amico e del suo fiuto; poi lui conosceva le mie preferenze meglio di ogni altro.
"Sei capitato un po' in anticipo, però, aggiunse Dario: quest'oggi è il primo giovedì del mese e, non so se ricordi, ma questa notte è la nottata della pesca".
E come se me lo ricordavo! Nottate tremende trascorse tra gli scogli dell'antemurale del porto, con gli inseparabili ai quattro punti cardinali per tirar su dall'acqua a volte solo qualche pescetto striminzito, dopo aver tirato giù un mare di bestemmie.
"Chi veniva al posto mio?". "Roberto Ti, il figlio dell'orefice, te lo ricordi?". Mi fa Paolo.
"Quello che aveva quella sorella tutta una curva? Chiesi mimando lo scultoreo corpo di quella bonona. E perché proprio lui? È sempre sbronzo". "Per via della sorella, si capisce". "Allora andate con lui stasera?". "Devi venire anche tu, saltò su Adolfo. Ci mancherebbe che adesso che sei qui tu non venissi! Si va in cinque, punto e basta".

Dovetti convincere mia madre che dopo quella ci sarebbero state tante serate, che avrei potuto dedicarle per raccontare quello che avevo fatto in quei sette anni, e anche quello che non avevo fatto, si capisce. Non era molto felice, ma le bastava aver di nuovo il figlio sotto lo stesso tetto. Fu mio padre a tirar giù un bel carico da undici: "Ma lascialo andare! Chissà quante cose belle hanno da raccontarsi lui e i suoi amici". E quante porcate, pensai io.

Andai sparato su in soffitta a tirar fuori tutta la mia attrezzatura per la pesca. Dio solo sa cosa era successo alla mia roba in quegli anni, pensai. Ma era tutto lì, bello impaccato come avevo lasciato io: e che mai avrebbe dovuto succedere se in soffitta metteva piede solamente mia madre, che conservava le mie robe come reliquie.
Controllai e vidi che mancava il filo di nylon del 50 per le imboccature e anche una serie di ami. Pensai di fare immediatamente un salto dal mio vecchio fornitore in Piazza del Mercato, e di farmi consigliare da lui sul tipo di ami da acquistare.
Sulla porta di casa incrociai Adolfo, che aveva pensato potessi aver bisogno del suo aiuto. Sempre pronto lui ed altruista; non era peggiorato col passare del tempo.
"Vado da Remo per ami e filo del 50", gli dissi.
"Non andiamo più da Remo, ci abbiamo litigato. C'è un negozio nuovo a Santa Marinella. Il proprietario si chiama Piero. Ha tutti gli ultimi urli della tecnica, e ti prepara tutte le imboccature che vuoi con nodi speciali, che si inventa lui. Dopo devi solo attaccarle. Ti fa vedere Piero come si fa".
Pensai che ne avevo proprio bisogno, dato che in tutto quel tempo avevo dimenticato le tecniche dei nodi. Chissà che disastro avrei potuto combinare di notte, alla luce di una pila elettrica.
Adolfo mi accompagnò con la sua macchina. Facemmo la nostra spesa e tornammo velocemente a casa mia.
"Passo a prenderti alle nove", disse e scappò via.

Preparai alcuni panini col formaggio e col salame, presi pure un paio di bottiglie di acqua minerale. Bevo sempre molto di notte, se non dormo. Misi tutto in uno scomparto del mio vecchio zaino; il resto era pieno di tutta l'attrezzatura e di ciò di cui pensavo avrei avuto bisogno durante la notte, sufficiente per una pesca miracolosa. Scelsi la mia antica canna di resina in quattro pezzi avvitabili, per una lunghezza complessiva di sei metri; una buona lampada tascabile, alcune pile di riserva e cominciai ad aspettare Adolfo. Arrivò spaccando il minuto, come sempre ricordavo io dei suoi appuntamenti.
"Paolo e Dario sono già in postazione, mi avvertì. Per Roberto dovremo aspettare qualche minuto, perché viene a piedi, facendo stradine solitarie". "Scaramantico?". "Teme che qualcuno lo veda e gli auguri buona pesca. In quel caso fa dietrofront e torna a casa". "Ha ragione: se qualcuno te lo augura la serata è fottuta. Ma come fanno ad accorgersi che lui va a pescare? Non ce l'ha una macchina?". "Non ci passano dentro le sue canne: ha una bestia da otto metri e una da dodici". "Vuole tirare su balene?". " Macché! Sono due mesi che non prende mai niente".
Mi misi a ridere forte. "Se lo ricordo bene, sai che bestemmie!". "Ne inventa sempre di nuove. Questa sera ti farai una cultura".

Lasciata la macchina, dovemmo marciare per un paio di chilometri, l'ultimo tratto saltabeccando tra scoglio e scoglio per raggiungere Paolo e Dario, che ci facevano segnali con la torcia elettrica. Paolo aveva portato un cestino di terra pieno di lombrichi; Dario aveva preparato il "pastone", un impasto di mollica di pane e cacio pecorino grattuggiato. Le armi le avevamo, le munizioni pure, non restava che tirar su pesci. Ma dovevamo attendere che arrivasse Roberto Ti, perché si potesse fare il rito propiziatorio: i componenti della squadra dovevano lanciare in acqua le loro lenze contemporaneamente, e non uno dopo l'altro, altrimenti si sarebbe potuto subito sbaraccare e tornarcene a casa.
Roberto Ti arrivò poco prima delle undici. Paolo si era addormentato con la testa sul suo cestino dei lombrichi. Dario ci aveva nel frattempo aggiornato sulle abitudini sessuali della sua nuova vittima, io mi ero pappato due panini al formaggio e un uovo sodo fregato dalla sacca di Adolfo, che nemmeno se n'era accorto attentissimo com'era al rapporto di Dario.
Insomma ci stavamo ben bene rompendo i coglioni.
Quello stronzo di Roberto Ti non ci salutò neppure.
Dopo un po' comunque effettuammo insieme il primo lancio.
L'ora era forse la più propizia, quella in cui i pesci vanno in cerca di cibo; una splendida luna di tre quarti illuminava la superficie del mare solo leggermente increspata, permettendoci di tenere d'occhio il vibrare dei nostri sugheretti: se un pesciolino avesse incominciato a sbocconcellare le nostre esche ce ne saremmo immediatamente accorti. Dopo un po' riuscivo a seguire le evoluzioni del mio sugheretto sulla cresta delle onde con gli occhi che si incrociavano e cominciavano a lacrimare. Pensavo fosse la desuetudine, ma si lamentavano anche gli altri.
Alle due di notte arrivarono i primi vaffanculo confezionati in vario modo. Mezzora dopo avevamo sprecato metà del pastone di Dario e cominciavamo ad affidarci alla forza adescatrice dei lombrichi di Paolo.
"Dove hanno già mangiato 'sti figli di puttana?" Proruppe Adolfo.
In effetti non mi era mai capitato di vedere che cinque lenze a quell'ora non subissero nemmeno una strattonata di un pesce vagabondo.
Dopo pochi minuti Roberto Ti incagliò il suo amo in uno scoglio e dovette tagliare il filo, condendo la manovra con una cascata di bestemmie. Fu allora che mi accorsi di non avere più niente da mangiare, né da bere.
"Ci sono i due fischi di vino che ha portato Roberto", disse Paolo. Quando arrivai vicino alla sua sacca Roberto Ti mi guardò torvo. "Solo un goccio e fila via", sibilò. Uno dei due fiaschi era vuoto, l'altro conteneva forse un paio di sorsate. "Quale goccio devo bere, ché ti sei già scolato tutto?" Lo apostrofai. "Il vino è mio e me lo bevo io, stronzo!". "Stronzo sarai tu e tutti i tuoi morti!" Gli risposi infuriato. Non mi era mai stato simpatico: era un cafone sempre pieno di vino e di scorregge puzzolenti, che ammorbavano l'aria. Ne mollò una pestifera. Perfino Dario, che stava a più di venti metri, dovette allontanarsi.
Cominciavo ad avere i coglioni pieni di quella nottata. Il cielo si andava schiarendo. Guardai l'ora: mancava poco alle cinque, una quindicina di minuti all'alba.
"Non sono più in forma. La pianto qui per questa volta, dissi ad Adolfo. Tu che fai?". "Provo ancora per un po'. Aspettami, ché debbo riaccompagnarti a casa". "Credevi che me ne fossi dimenticato? Gli chiesi cominciando a svitare i pezzi della mia canna. Vado fino alla stazione a prendermi un caffé".

Li piantai lì ricominciando mestamente a saltellare di scoglio in scoglio. Ne avevo per più di due chilometri prima di arrivare in stazione, quasi la metà sul dorso di scogli umidi e scivolosi per la salsedine.
Non sarebbe stato facile reinserirsi nella vecchia vita, pensavo mentre appoggiavo i piedi con cautela; loro non conoscono i miei problemi, come io non conosco i loro.
Finalmente la scogliera terminava e io potei camminare più in fretta sulla terra ferma.

La stazione era deserta e il bar era chiuso fino alle sei. Ancora mezzora prima di bere un cappuccino. M'incamminai lungo un binario. La luce gialla dei lampioni notturni ancora accesi, mescolandosi a quella del giorno incipiente, rivestiva le grige pietre dei marciapiedi di un velo spettrale. Il segnale acustico, che avverte l'arrivo di un treno, entrò in funzione.
Per chi diavolo suona 'sta campana? Non c'è nessuno che parta, pensai. Nemmeno un manovratore fra i binari. In quel momento dalla grande curva spuntò un treno e come d'incanto si materializzò sotto la pensilina un tizio allampanato vestito di nero con un berretto rosso con visiera. L'altoparlante annunciò l'arrivo del direttissimo Torino-Roma sul secondo binario. Lo annunciò al tizio con visiera e a me. Il treno fermò con enorme stridore di freni. Nessuno doveva salire, nessuno scese. Finestrini tutti appannati, scompartimenti al buio. Là dentro la gente dorme ancora a fondo, pensai.
D'un tratto uno di quei finestrini fu abbassato. Comparve nel riquadro una esile figura di donna, molto giovane. Mi avvicinai fino ad arrivarle sotto. Un viso meraviglioso, un ovale perfetto. Occhi azzurrissimi che mi guardavano intensamente, come la stavo guardando io.
"Come ti chiami?" Le chiesi. "Giovanna". Rispose.
Continuammo a guardarci, poi lei mi sorrise. Fu un attimo. Il capostazione emise un fischio breve e lacerante e subito il treno si mosse. Feci due passi verso il vagone. Lei mi sorrise di nuovo e alzò una mano in un lieve saluto. Mi fermai. Il treno acquistava velocità. Il direttissimo Torino-Roma si portava via per sempre la donna di cui mi ero perdutamente innamorato.

Nelle cento contrade in cui la vita mi ha trascinato ho spesso incontrato donne esili e fragili con occhi azzurrissimi e volto perfetto. Ogni volta ho sussultato. Invano: quel grande amore era andato perduto per sempre.
Alcuni mesi fa, in una libreria di Firenze per la presentazione del nuovo libro di un mio amico, si parlava di amori giovanili.
"Lei ricorda il suo primo amore?" Mi chiese un'elegante signora.
"Certamente, le ho risposto. Si chiamava Giovanna; veniva da Torino".

Nessun commento:

Posta un commento