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C'era però ancora una speranza e John Cally Filiput si aggrappò a quell'ultimo filo. Si recò nella biblioteca municipale di Richmond e consultò tutti i libri che parlavano di Karl Marx e della sua famiglia, un lavoro che gli portò via tre settimane di tempo. Alla fine conosceva tutto della sua filosofia ma poco sulla sua famiglia, troppo poco, quasi solamente accenni. Comunque ora sapeva che il grande Karl aveva avuto tre sorelle e soltanto un fratello, più giovane di lui di alcuni anni, che però era morto tubercoloso ancora ragazzo. Due erano gli zii da parte di padre: il primo era morto a venti anni in guerra, una delle tante combattute in quel secolo, l'altro aveva sposato una lussemburghese ed era vissuto per lunghi anni a Trier. Non c'era scritto se avessero allevato figli del proprio letto o adottivi, ma John Cally Filiput decise immediatamente che doveva cominciare le ricerche da Trier.
Nell'antichissima città renana, l'Augusta Trevirorum degli antichi romani, scartabellando tra polverosissime carte e registri voluminosi, trovò che Ignazio Marx e la sua signora lussemburghese avevano passato la maggior parte della loro vita comune a Limburg, una splendida cittadina dell'Assia posta quasi al centro del Parco naturale dell'Alto Taunus, e che ivi erano morti e sepolti.
Il viaggio in terra germanica di John Cally Filiput terminò nel cimitero di Limburg, dove in una grande tomba a forma di cappellina gotica riposavano cinque salme: Ignazio Marx, sua moglie Annalise nata Gauthier, suo figlio Erbert Ludwig Marx, la moglie di questi Maria Assunta Barbarelli di chiare origini italiane, e per ultimo tale Kurt Marx, nato nel settembre 1891 e morto nel mese di luglio dell'anno 1916. Non c'erano fotografie secondo l'usanza tedesca, ma tanto quel Kurt non poteva certamente essere quello che lui aveva conosciuto.
Un'omonimia, pensò, che aveva fatto venire voglia al suo Kurt di mettere in giro tutte quelle frottole sulla parentela col grande filosofo materialista; oppure chissà come si chiamava e quella piastrina chissà come era finita appesa al suo collo. E questa poteva essere la spiegazione più logica, visto che il suo Kurt sembrava non essere mai esistito con quel nome.
John Cally Filiput si rassegnò e mise una pietra sopra tutta la faccenda. Aveva conosciuto una ragazza di Mainz e iniziò a convivere con lei lavorando come scaricatore e operaio tutto fare ai Mercati Generali di Mainz. In America si era diplomato in computisteria e amministrazione aziendale, ma non conosceva la lingua tedesca tanto bene da poter entrare in una Banca o in un ufficio privato di ragioneria; si adattò a fare un lavoro pesante e umile intanto che imparava la nuova lingua dalla sua Margarete, che era insegnante elementare.
Per cinque anni si amarono, per quattro si sopportarono e all'inizio della primavera del 1929 si lasciarono con gran rumore di stoviglie distrutte e di porte sbattute.
Nemmeno pensare di tornare negli Stati Uniti, dove dopo il crollo della Borsa di New York la disoccupazione dilagava e la gente si scannava per un tozzo di pane. Continuò a lavorare ai Mercati Generali di Mainz, dove i soldi gli arrivavano ogni mese sicuri anche se non riceveva mai aumenti. In compenso adesso che parlava la loro lingua lo avevano messo in un ufficio a tenere registri di carico e scarico delle merci. Faceva quindi il suo lavoro e avrebbe dovuto essere contento, invece deperiva ogni giorno di più, come se non mangiasse abbastanza. Per mangiare mangiava, quel che capitava e dove capitava, soprattutto in quei chiostri che i tedeschi chiamano "Schnell Imbiss", specie di tavole calde, dove per pochi Pfennige ti danno una fetta di pane e una salsiccia arrostita bella calda con sopra un sugo molto piccante. A casa non cucinava mai, troppo fastidio nel preparare e troppa puzza da mandar via. Ottima cosa gli Schnell Imbiss, niente piatti da lavare e dopo aver mangiato buttare giù un paio di birre freschissime e la pancia era piena.
Ma deperiva di giorno in giorno, e quando gli capitava di incontrare gente che non vedeva da qualche tempo si meravigliavano sempre tutti per come si era ridotto. "Sei invecchiato di brutto, gli dicevano tutti: lavori troppo o fai troppo all'amore".
Ma di quello neanche parlare, non toccava più una donna da un sacco di tempo e l'ultima volta che ci aveva provato era stato un disastro, con il suo pezzetto che dopo due o tre miserabili tentativi si era definitivamente afflosciato lasciandolo seminudo alla mercé degli improperi della signora delusa e offesa a morte. Era tornato a casa con un tremendo bruciore di stomaco che non lo aveva lasciato dormire. Da quella volta non aveva più provato ad andare a letto con una donna temendo di fare nuovamente cilecca.
I bruciori di stomaco continuavano però quasi ogni notte, da un po' di tempo anche di giorno, soprattutto appena aveva iniziato un pasto, tanto che si poteva dire che ormai quasi solo bevesse e assai poco mangiasse. Gli si erano molto diradati i capelli e i superstiti erano tutti grigi e secchi, cosicché a poco più di trentasette anni sembrava un vecchio di almeno sessanta.
Lo trovarono una brutta mattina sul pavimento, piegato in due accanto alla sua scrivania, con le braccia rigide avvinghiate intorno ai fianchi e la bocca spalancata alla ricerca di aria. In ospedale gli diagnosticarono molteplici acciacchi più o meno gravi e una perfida ulcera perforata. La sera stessa fu operato, e a notte fonda lo portarono nella stazione di rianimazione.
Fu infibulato e incannulato a dovere, mentre una suora anziana ed efficiente non lo perdeva un momento d'occhio. John Cally Filiput dormiva tutto il tempo e quando apriva gli occhi in qualsiasi momento della notte e del giorno gli capitava sempre di vedere la sua monachina affaccendarsi intorno a lui. Gli dava una sensazione di benessere e di tranquillità sapere che una persona vegliava su di lui, non gli succedeva più dai tempi della sua infanzia. Richiudeva gli occhi e tornava a dormire beatamente. Ma una notte che si era svegliato di soprassalto per il gran rumore, vide che non c'era soltanto la sua suorina accanto a lui ma anche alcuni infermieri e un paio di medici. Lo presero e lo caricarono sopra una lettiga.
-C'è una emorragia, gli sussurrò la sua suora; si faccia coraggio e preghi.
-Mi operano di nuovo? Le chiese.
-E di gran carriera per evitare la peritonite. Io pregherò tutto il tempo per lei.
In ginocchio accanto al suo letto, completamente assorta nella preghiera, la rivide alcune ore dopo, chissà quante, parecchie però perché ormai albeggiava.
-Com'è andata? Riuscì a chiederle con un filo di voce.
-L'operazione è andata bene, gli rispose la monaca in un sussurro.
-Sto morendo, vero sorella?
-La sua vita è nelle mani del Signore.
John Cally Filiput chiuse gli occhi reprimendo un singhiozzo. Adesso che era arrivato alla conclusione dell'ultimo capitolo del suo libro privato si rendeva conto di quanto fuggevolmente ne avesse letto le parole. Chi era stato che gli aveva detto che la vita era un foglio scritto sul quale tutti gettavano occhiate di sfuggita, e se anche riuscivano a vedere bene qualche particolare si lasciavano sfuggire tutto il resto? Chi glielo aveva mai detto?
-Tuo nonno Calogero, disse una voce d'uomo.
Aprì gli occhi di colpo. La suora era scomparsa, ma nella semioscurità della stanza intravide una sagoma alta e robusta.
-Non mi hai ancora riconosciuto?
Quella voce non l'aveva mai sentita, ma qualcosa aveva immediatamente attratto la sua attenzione nel viso dell'uomo che era entrato nella sua stanza, facendogli sobbalzare il cuore: tra gli incisivi superiori c'era un vuoto, un'assenza fatale.
-Kurt! Gridò. Kurt Marx! Allora sei vivo...oppure no, aggiunse immediatamente rabbuiandosi; forse sono io che sto morendo.
-Ascoltami John. Noi non ci vedremo più per un bel po' di tempo, ma tu non devi temere pericoli perché sei sotto la mia personale protezione.
-Non ti capisco Kurt: sei appena arrivato dopo un secolo che non ti vedo e già mi fai capire che te ne riandrai velocemente come sei venuto.
-Tutto di corsa, gli rispose Kurt Marx.
-Ci sono tante cose che mi dovresti spiegare.
-Adesso no, non è il momento. Adesso io uscirò di qui. Subito dopo tu ti alzerai da quel letto e abbandonerai l'ospedale.
Lo vide scomparire in un attimo, mentre avrebbe avuto tanto bisogno di averlo con sé. Gli aveva detto di alzarsi dal letto e di andarsene dall'ospedale, ma come poteva? Era stato operato da poche ore per la seconda volta. Però si sentiva bene, come mai si era sentito, fresco come un ragazzo. E poi doveva aver fiducia in Kurt Marx, che era venuto di persona a rimetterlo in sesto.
Si sfilò gli aghi ipodermici dalle braccia, saltò giù dal letto con una agilità che non aveva più da tempo immemorabile, aprì l'armadietto e ne trasse i suoi vestiti cominciando a vestirsi. Era allegro come un ragazzo che ha marinato la scuola. In un attimo fu pronto, ma pensò che non poteva andarsene senza prima ringraziare la buona monachina che tanto si era data da fare per lui. Si accinse a cercarla in corsia, ma proprio in quel momento la suora entrò. Gli passò accanto veloce col suo solito fruscio e il buon profumo di vesti lavate di fresco, e tirò su le tapparelle facendo entrare la luce del giorno nella stanza. Si voltò e lo vide.
John Cally Filiput provò ad assumere un'espressione adeguata per una persona che prende commiato con dispiacere, ma anche con la soddisfazione di avere salvato la pellaccia. Stava per aprir bocca quando la suorina lo assalì.
-Cosa ci fa lei qui dentro? Non lo sa che le visite a quest'ora sono proibite, e chi l'ha fatta entrare nella camera dei un degente grave?
Non gli lasciò il tempo di rispondere perché aveva dato un'occhiata al letto e si era accorta che era vuoto.
-Oh, Dio mio! Oh, Dio mio! Cominciò a gridare; che fine ha fatto quel povero vecchietto? Dov'è andato? Non può muoversi, è gravissimo, è più morto che vivo. È stato lei, urlò avventandosi addosso a John; lo ha aiutato lei, da solo non ce l'avrebbe mai fatta.
John Cally Filiput fece un passo indietro cercando una parola, una frase, una sillaba che non gli veniva in bocca, mentre la monaca si precipitava fuori fuori dalla stanza gettando l'allarme.
John si avvicinò allora al lavabo e si guardò dentro lo specchio. Ecco perché la suora non lo aveva riconosciuto: il vecchietto grigio, rugoso e spelacchiato che poco prima giaceva nel letto non c'era più. Al suo posto John rivide se stesso com'era ai tempi della campagna del Belgio. Non stette un solo minuto a riflettere sul perché e il percome della sua trasformazione. Intascò la sue cose e uscì velocemente dalla camera. Incontrò infermieri che accorrevano da più parti, ma nessuno si curò di lui. Dopo pochi minuti e alcune rampe di scale arrivò nel cortile e affrettò il passo verso l'uscita.
Sai che preferivo il finale che avevo scambiato per finale ma che non era il finale?
RispondiEliminaA mio parere ci può stare che un essere -reale, immaginario, quel che vuoi- ti possa salvare la vita una volta, e passa.
Ma la seconda diventa troppa grazia sant'antonio, e il lettore deve reprimere un moto di stizza verso questo privilegiato, perchè lui, il lettore intendo, ha il fondato sospetto che quando arriverà il suo momento non ci sarà santo o cugino di santo che tenga!
Comunque, il racconto fino alla quinta puntata era ottimo, a mio gusto.
Ma lo sai che lo avrei giurato?
RispondiEliminaAllora chissà se lo finisci di leggere, perché dura ancora un po'.
Purtroppo qualche volta la realtà supera la fantasia: prova a scrivere qualcosa di logico o di illogico sulla sorte di quella povera Yara, se ci riesci.
Facciamo così: continua a leggerlo fino alla fine, senza prevenzione, poi potrai sputazzarmi addosso come vorrai.
D'accordo?
ah, non era finito neanche questa volta?
RispondiEliminache babbea che sono!