sabato 15 ottobre 2011

POESIE D'AGOSTO PIÚ UNA

Dopo un lunghissimo racconto dal finale amaro e cupo un po' di poesia non guasta. Sono alcune poesie che ho scritto durante le mie vacanze a Bibione.

LA MANO SINISTRA DI DIO

Mi taglio sempre le unghie
davanti allo specchio del bagno;
non guardo le dita mente ci lavoro,
guardo l'immagine riflessa e quindi
recido in differita, perché nello specchio
vedo un mancino che lavora veloce e sicuro,
come Dio quando ha creato l'Universo,
perché Dio è mancino: basta guardare
il cielo di notte quando è sereno
e quando non c'è la luna per vedere
la mano di Dio partita da sinistra
a destra nel gesto divino.
Poi la mano gli cadde sul fianco,
stanca, ne gocciolò via una stilla
di sudore e fu creato il mondo.


BUONA È LA NOTTE

Buona è la notte, che mi fa pensare,
che mi aiuta a subire; bella
è la notte, che mi dà la voglia
di sperare. Da trenta anni la accolgo
in questa casa, vicina
allo scorrere del Reno, dove sono
parcheggiato nell'attesa che tutto abbia fine.
Qui ascolto la notte e il suo respiro,
che trapassa i vetri, le mura
e le tegole del tetto: lo ascolto
unirsi al mio, che a volte è tranquillo,
molto spesso accelerato, qualche
volta agitato. Poi c'è ancora
qualcosa che amo della notte: il tuo
silenzio calmo accanto a me.


L'ANGELO CORRUTTORE

La riconosco dal sapore agro
che mi sgocciola in gola la presenza
dell'angelo corruttore, che ogni notte
si avvicina ai miei sogni
senza penetrarvi mai, per mio assoluto divieto.
Si illude di convincermi che i suoi dogmi
siano i migliori, i più a buon mercato,
i soli che ne prendi due e ne paghi uno,
con qualche orazione ogni mattina
appena alzato e ogni sera appena coricato.
Pretende di convincermi che la sua vita è eterna.
Ti chiederò scusa, amico mio, se dopo
morto ti troverò davanti alla soglia della mia casa
ad aspettarmi; ti chiederò scusa
per non averti dato retta, ma adesso,
per favore, lasciami abitare a modo mio
questo sputo di mondo dove mi hai trovato
e non provare più a parlarmi del tuo paradiso,
piuttosto del tuo inferno, se ne hai voglia.


UN MOZZICONE DI MATITA

Un mozzicone di matita,
un foglio di carta
spiegazzato;
parole sfuse in
girotondo
per una poesia che
muore appena nata.


BERMUDA BIANCHI

Bermuda bianchi e poi soltanto pelle,
la mia pelle infocata di sole
e invece desidero la notte
per pensare in silenzio,
ma la pelle brucia e suda
anche di notte.
Non finirà mai questa estate
di luce asfissiante, di suoni, di colori
che fanno male agli occhi,
che disturbano
i silenzi dell'anima, che a loro
volta mi chiedono
altri silenzi
per ascoltare meglio la vita
che mi si divincola fuori
dalla pelle di ora in ora.


Per PIÙ UNA si intende una poesia che non è stata scritta a Bibione d'agosto, ma qualche mese prima a Maximiliansau. Questa poesia è stata però scelta con altre 99 tra almeno 12000 di 1400 poeti diversi per entrare in una antologia. Ho pensato di aggiungerla qui per i miei amici


AVREI VOLUTO

Avrei voluto che tu fossi
madre a me
e non ai figli miei;
esser la prima
donna della mia vita.

Ti è toccato esser l'ultima,
la definitiva,
quella che mi cammina al fianco,
che mi siede davanti a colazione,
che non mi chiede
più nulla,
perché mi conosce come
mia madre che mi ha messo
al mondo.

Non mi ero accorto,
scusami,
che tu avevi esaudito da tempo
quel mio istintivo desiderio.


domenica 9 ottobre 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Ultima puntata


Verena Mutig iniziò quella sera stessa a gettare le basi di quel nuovo romanzo. Per un inconscio istinto di sopravvivenza aveva una gran fretta di finirlo; non aveva ancora deciso cosa raccontare e cosa no, ma attese che l'ispirazione le arrivasse col tempo.
Tre mesi dopo Esther Samenberg fu ricoverata nella clinica del suo amico oncologo: non parlava quasi più e aveva lunghe pause di torpore, durante le quali a stento si capiva se respirasse ancora. Le ultime settimane entrò in coma irreversibile, ed esattamente sei mesi dopo la sera delle sue grandi rivelazioni a Verena il suo cuore cessò di battere.
Tornata a casa dal rito funebre Verena capì di avere a lungo interrogato la sua coscienza, troppo a lungo, senza voler capire che nel suo cuore e nella sua mente già da tempo era maturata la decisione di raccontarla tutta la verità; di raccontare tutto di Isaia Samenberg e della sua scoperta del magnetismo tra gli universi sopra e sotto quello nostro, che se cade in modo diverso sul mondo manda a spasso il Giappone per mare come un incrociatore senza timone, ricopre di ghiacci l'equatore e di sabbia del deserto tutta quanta l'Antartide; e che tutte queste pazzie stavano scritte sotto un Picasso abilmente falsificato, che chi voleva poteva trovare delicatamente imballato da una ditta francese a Harrisburg, in una soffitta della villa di un vecchio glorioso soldato colpevole di bigamia e forse anche di mania di grandezza. Amen.
Verena fu felice di aver preso una decisione da normalissimo essere umano, e concluse la sua opera raccogliendo tutto in otto dischetti, che contraddistinse dal primo all'ultimo con le prime otto lettere dell'alfabeto greco, dalla Alfa alla Thêta cioè, per distinguerli da quelli che contenevano gli appunti originali, che Esther aveva numerato da 1 a 11.
Fu pronta in meno di un anno e, dopo aver telefonato al suo editore annunciandogli il suo prossimo arrivo, partì da Roma alle sette del mattino con la sua auto perché non si fidava di spedire il materiale per posta. Portò soltanto una valigetta col minimo necessario e due buste contenenti i suoi dischetti e quelli di Esther. Raggiunse l'autostrada A1 in meno di un'ora e diede subito gas perché l'appuntamento a Milano con l'editore era per le quindici e voleva prima andare in hotel a farsi una doccia.

*

Cominciarono alle undici e un quarto ad arrivare alla Centrale della Polstrada di Firenze le telefonate degli automobilisti che avevano assistito allo spettacolare incidente. Le due pattuglie della stradale inviate sul posto sapevano che era successo tra l'uscita di Roncobilaccio e quella di Pian del Voglio, prima della galleria, come avevano detto quelli che sostenevano che la Mercedes viaggiava diretta a Bologna; dopo la galleria, come invece dicevano altri che erano convinti che l'auto fosse diretta a Firenze. Unica cosa certa: la macchina era volata giù da un cavalcavia e si era schiantata accanto a un pilone di cemento dopo un volo di settanta metri. Le due pattuglie sbagliarono a imboccar strade un paio di volte, ma finalmente arrivarono sul posto.
Della giovane donna al volante c'era ben poco da riconoscere. Doveva aver avuto un malore, perché quando riuscirono a ricostruire la dinamica dell'incidente in base alle raschiate lasciate dalla carrozzeria sull'asfalto e sul guardrail, si capì che la guidatrice viaggiava diretta al Nord, e che l'auto improvvisamente sbandata aveva saltato lo sbarramento centrale tra le opposte corsie, attraversato diagonalmente la carreggiata diretta a Sud e dopo aver saltato anche la protezione esterna era precipitata nel vuoto.
"Sembrava che qualcuno avesse dato un gran colpo allo sterzo, dissero alcuni testimoni; è schizzata via acquistando sempre più velocità dopo la sbandata".
In effetti non c'era alcuna traccia di frenata. Motore, sterzo, freni e sospensioni erano in ordine; la donna era morta sul colpo in seguito all'urto. Non era possibile andare oltre l'ipotesi del malore, ma non si poteva escludere un colpo di sonno, o forse era stata solo la volontà del destino.
Le pattuglie raccolsero tutto quello che trovarono in un pacco; due giorni dopo il contenuto era tutto sul tavolo di una giovane ispettrice. A parte gli effetti personali e i documenti c'erano solo due buste pieni di dischetti: per l'esattezza una ne conteneva undici, numerati progressivamente partendo da uno; l'altra conteneva otto dischetti con sopra scritto a mano Verena Mutig-Alfa e poi di seguito, seguendo l'alfabeto greco che l'ispettrice conosceva, fino all'ultimo dischetto Verena Mutig-Thêta.
L'ispettrice prese il primo di questi ultimi e lo inserì nel suo PC; cercò di aprirlo, ma era vuoto, e così via tutti gli altri contenuti in quella busta. Che razza di scherzo è questo? Si domandò la giovane ispettrice di polizia. Inserì comunque anche i dischetti coi numeri progressivi della seconda busta, non nell'ordine numerico ma così come le venivano fuori. Anche questi, manco a dirlo, erano vuoti, e la giovane ispettrice stava per rimetterli nella loro busta quando si accorse che quello col numero uno le era scivolato sotto le carte che aveva sparse sopra la scrivania.
Sarà certamente vuoto anche questo, pensò la ragazza, ma per scrupolo lo infilò nel computer, e quasi per un miracolo nello spazio "nome del file" comparve un titolo: "Dopo la morte di A.".
C'è un morto, pensò l'ispettrice, e speranzosa fece clic sul titolo del file.

Filename: DOPO LA MORTE DI A.

Mentre Alessandro moriva a Babilonia nel 323 a.C., attorno alla sua tenda stava acquartierato il resto dell'esercito che tutto aveva vinto al suo comando: poco più di seimila uomini. Già sufficientemente ricchi per essersi divisi un bottino di cinquantamila talenti dopo la battaglia di Arbela, attesero in rispettoso silenzio la morte e i funerali del loro re. Dopodiché si spartirono i tesori che ancora avanzavano, e una volta sciolti i reggimenti e le brigate si divisero in tribù, sotto tribù, gruppi e gruppuscoli preparandosi a tornarsene a casa.
Parecchi di loro rimasero lì per sempre, sepolti sotto dei massi, perché scoppiarono risse furibonde per invidie e vecchi rancori con morti e mutilati. Tanti creparono strada facendo; molti si ammogliarono con le bellocce donne assire e persiane; qualcuno più fedele o di bocca meno buona dei camerati tornò alle mogli lasciate in Macedonia una decina di anni prima. Di tutti quei soldati i cronisti del tempo furono in grado di dare notizie sicure fino al loro ritorno in patria; dopo se ne disinteressarono perché non avevano più valore di notizia da prima pagina, e anche a me non interessano più. Proprio di tutti quei soldati, come ho detto sopra, i cronisti non ce la fecero a conoscere la fine, e questo va precisato: di cinque di loro, un colonnello e quattro capitani, che si mossero nottetempo appena morto il re insieme a due giovani donne fenice, si perdono quasi subito le tracce. Una delle due donne era incinta, e dato che era stata l'amante del re quello che dopo poco avrebbe partorito doveva essere il figlio di Alessandro. La donna mise al mondo un bambino sordomuto, ma di straordinaria bellezza, con un occhio nero e uno azzurro, e nessuno alla vista di quel marchio di fabbrica osò più mettere in dubbio l'origine regale del marmocchio. Come si è detto, dei sette più uno, (o per meglio definire, dei 5+2+1, anche se puzza di modulo calcistico), non si seppe più nulla, ma ricompaiono qua e là nel corso dei secoli in modo però assai nebuloso, almeno fino a Auschwitz, dove qualcuno giura di averli visti uscire vivi da una camera a gas, e altri invece sono convinti che fossero in uniforme da SS, compreso il bambino.
Di questo gruppo di eroi-carogne e di puttane-sante e del loro bastardo si occupa il libro che sto per scrivere. Unica notizia certa: i cinque ufficiali erano tutti nati a Pella, e appartenevano alla stessa brigata di cavalleria con la quale Alessandro combatté gloriosamente a Cheronea nel 338 a:C.. Stesso squadrone di Alessandro, furono sempre fianco a fianco con lui, la sua guardia del corpo per essere esatti, i suoi amici più fidati.
Le due donne erano scampate alla distruzione di Tiro, e nel massacro ebbero salva la vita per la loro bellezza. Erano sorelle gemelle, identiche come due gocce d'acqua. Alessandro le amò entrambe, come era facile immaginare.

Bella storia, pensò la giovane ispettrice, ma non interessa per la soluzione del mistero di questo incidente. Si sentì a posto con la coscienza; mise le buste coi dischetti di nuovo dentro il cartone insieme ai documenti e agli effetti personali; chiuse il cartone e vi incollò sopra di traverso un'etichetta dove scrisse con un pennarello: "Da destinare ai parenti".
Rimise il cappuccio al pennarello e passò alla pratica successiva.

F I N E

martedì 4 ottobre 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Undicesima puntata


A casa Verena accese il suo PC, introdusse il dischetto numero 4 nell'apposita fessura e aprì il file.

Filename: VOLO UNITED AIRLINES 93

Le due ragazze entrarono all'interno dell'aereo separatamente, una delle due trascinava per mano un moccioso riottoso che inforcava un paio di occhialoni scurissimi. Da sotto i suoi jeans sdruciti spuntavano due stivaletti neri lucidissimi. Le due ragazze sedettero ai lati opposti del corridoio, un paio di metri l'una dall'altra. Quella di destra spinse con forza a sedere il ragazzino nel posto accanto all'oblò. Il bambino si divincolò e mugolò qualcosa incomprensibile. La giovane Stewardess teneva già d'occhio da quando erano entrati lui e la ragazza; si avvicinò con un largo sorriso. Era una donna alta e graziosa con occhi e capelli neri e sapeva di apparire magnificamente nella sua divisa; il suo sorriso e la sua gentilezza la vincevano con tutti, uomini donne e anche bambini.
-Forse ha fame il nostro piccolo uomo, disse chinandosi verso il bambino e gettò un occhiata al suo orologio, non erano ancora le sette e mezza. Fra mezzora decolliamo e subito dopo ti porto la colazione.
-Non è la fame, le rispose la ragazza; è soltanto un po' nervoso.
-Paura di volare?
Per tutta risposta il bambino le mostrò la lingua. Poi si alzò di scatto e prese fra le dita la targhetta col nome appuntata sul petto della donna, avvicinandosi come per leggerla meglio.
-Io mi chiamo Cee Cee Ross. lo aiutò lei; e tu come ti chiami?
Il ragazzino la fissò senza aprire bocca.
-Ho visto che la lingua ce l'hai, perché non vuoi dirmi il tuo nome?
-Non può, intervenne la ragazza; è sordomuto dalla nascita.
-Oh, mi dispiace.
-Si figuri, mi fa diventare matta anche senza parlare.
Cee Cee voleva rifarsi un po' col ragazzino. Gli sparò un sorriso speciale.
-Perché non ti togli quegli occhialoni? Visto che non riuscivi nemmeno a leggere il mio nome? Chissà che begli occhi che hai.
Il sordomuto ci pensò su un attimo poi si tolse gli occhiali. Il sorriso scomparve dalla bocca di Cee Cee Ross.
-Che strano, mormorò, poi si scosse. Scusatemi, ho un sacco di cose da fare, e si allontanò rapidamente.
Cinque minuti dopo entrarono quattro uomini e sedettero nei posti liberi che trovarono. Per ultimo entrò un quinto uomo molto alto e dall'aspetto severo. Percorse tutto il corridoio fino in fondo all'aereo guardando i pochi passeggeri come se cercasse qualcuno. Sfiorò appena con lo sguardo i due arabi seduti in prima fila e un altro seduto quasi al centro, che era arabo anche lui ma sembrava non avere niente altro in comune coi primi due. Arrivato in fondo al corridoio l'uomo alto e severo tornò indietro e sedette una fila dietro alla ragazza col bambino. Giusto in tempo per stringersi la cinghia di sicurezza ché l'aereo era già pronto a rollare sulla pista.
Alle 8,01 il Boeing 757 del volo UAL 93 si staccò dalla pista del Newark Airport diretto a San Francisco alzandosi in un meraviglioso cielo blu. Venti minuti dopo l'arabo seduto al centro si alzò avviandosi verso le toilette anteriori. Afferrata la maniglia aprì la porta, ma subito la richiuse precipitandosi sullo Steward che gli dava le spalle. Era comparso qualcosa nella sua mano destra forse un trincetto o una lima per le unghie. Sapeva comunque farne un uso estremo perché un attimo dopo lo Steward crollò sgozzato a terra. Un passeggero delle prime file grande e grosso, forse un militare, reagì con prontezza cercando di afferrare il braccio armato dell'arabo, ma fu sopraffatto dagli altri due arabi che adesso brandivano ognuno attrezzi da taglio simili a quello dello sgozzatore. Il passeggero robusto fu ripetutamente pugnalato sui reni e sui fianchi; cadde a terra e morì poco dopo. C'era sangue da per tutto. Sovrastando le urla di panico il primo arabo gridò ai passeggeri:
-Questo è un dirottamento! Andate tutti in fondo e sedete tutti negli ultimi posti.
Estrasse un oggetto tondeggiante da una tasca dei pantaloni.
-Questa è una bomba a mano. Può fare spaccare in due la fusoliera. Sedete in fondo, maledizione, o morirete tutti!
I due suoi compagni erano già entrati nella cabina di pilotaggio e si sentivano provenirne urla e il rumore di una colluttazione mortale; ma l'arabo con la bomba non si curò di quello che avveniva alle sue spalle. Diede uno spintone a Cee Cee Ross scaraventandola verso il fondo. Lei perse una scarpa nel corridoio, arrivò in mezzo agli altri ostaggi claudicante e con gli occhi pieni di lacrime; si lasciò cadere in una poltroncina, si sfilò la scarpa rimasta e la scagliò lontano da sé. Un attimo dopo si coprì il volto con le mani emettendo un grido strozzato. Attraverso la porta della cabina spalancata i due arabi trascinarono fuori i corpi senza vita dei due piloti. La testa del Comandante Jason Dahl penzolava di lato, quasi del tutto staccata dal busto.
I tre confabularono tra loro, poi uno di quelli che avevano ammazzato i piloti rientrò nella cabina. Alcuni secondi più tardi l'aereo iniziò una grande virata a sinistra.
-Stiamo tornando indietro, esclamò Cee Cee. Poi estrasse di tasca il suo handy, chiamò il marito e gli riferì quel che era successo. La stessa cosa fece Laureen Grandeola; Jeremy Glick telefonò a sua moglie Lizabeth. Alcuni minuti dopo telefonavano tutti.
-Un aereo pochi minuti fa ha centrato una delle Twin Towers a New York, urlò una donna; mia figlia mi ha detto che sta su tutte le televisioni.
-Cristo! Questo è un commando suicida, esclamò Mark Bingham e chiamò subito sua madre Alice al telefono.
-Non è possibile, gridò qualcuno; non spargete il panico.
-Invece deve essere così, disse un altro, altrimenti non avrebbero ammazzato i piloti.
-Non possiamo rimanere inerti e aspettare la morte, esclamò Thomas Burnett; dobbiamo batterci. Forse non salveremo l'aereo ma almeno non lo faremo precipitare dove vogliono loro. In che direzione stiamo andando? Chiese a Cee Cee.
-Credo che vogliano arrivare a Washington, grosso modo questa è la rotta.
-La Casa Bianca! Esclamò Jeremy Glick.
-Cristo, è vero! Dissero in molti.
-Vogliono ammazzare il Presidente, disse Thomas Burnett, e cominciò a telefonare a sua moglie.
-È sicuro, è sicuro! Gridò Laureen Grandeola; me lo ha detto adesso mio marito: un altro aereo ha centrato la seconda delle Twin Towers. Dio mio, moriremo tutti!
Il limite del panico era stato ormai superato, ora erano tutti entrati nel grande campo della disperazione fredda, calma che ogni condannato a morte conosce pochi attimi prima dell'esecuzione.
-Saltiamogli addosso, sono solo in tre.
-Non avete una chance contro quella gente, disse la ragazza che teneva tra le braccia il piccolo sordomuto; lasciate fare a loro, e indicò i cinque uomini che se ne erano rimasti tranquilli e in silenzio come se la cosa non li riguardasse.
-Possiamo aiutarli, disse Thomas Burnett; siamo uomini anche noi.
-Non basta amico, disse quello dei cinque che era entrato nell'aereo per ultimo. Quei tre sono professionisti e anche noi lo siamo.
-Da come parli direi proprio di sì, disse Thomas, ma due o tre di noi possiamo esservi di aiuto.
-Occupatevi delle donne e state alla larga, disse quello entrato per ultimo che parlava come un capo.
Si avvicinò al piccolo sordomuto e gli aprì davanti al viso il palmo della mano destra. Il ragazzino si rimboccò i pantaloni, estrasse da dentro i suoi stivali gli speroni e glieli mise nel palmo aperto. Poi si tolse la cinghia di cuoio dei pantaloni e offrì anche quello all'uomo che sembrava il capo. Questi passò gli speroni a due del suo gruppo e si arrotolò la parte terminale della cintura intorno al polso destro, lasciando pendere circa mezzo metro di cuoio con in fondo una fibbia dalla foggia strana, ma tagliente come un rasoio.
-Stiamo già sorvolando la Pennsylvania, disse una delle due ragazze.
-Ancora pochi minuti, aggiunse l'altra.
L'uomo che si comportava come un capo emerse dal mucchio degli ostaggi e si incamminò lungo il corridoio centrale del velivolo muovendosi con estrema circospezione. L'arabo gli mostrò la bomba a mano come terribile monito, ma visto che l'altro continuava ad avanzare gli urlò:
-Mi basta allargare le dita, ho già tolto la sicura. Vattene bastardo! Anche gli altri devono andarsene. Via tutti! Indietro!
Ma i quattro uomini avanzavano di lato scavalcando le spalliere delle poltrone. Quello che camminava lungo il corridoio era ormai a pochi passi dai due arabi, che aspettavano l'attacco con apparente sangue freddo. L'uomo che sembrava il capo allargò le braccia come Cristo, lasciando la cinghia penzolare bene in vista.
-Bada cane che allargo le dita!
-Fallo! Gli rispose l'uomo che stava nella positura di Cristo sulla croce; tanto non arriverete mai a Harrisburg.
Vide un lampo di sorpresa negli occhi dell'arabo e lasciò guizzare la cintura di cuoio che gli si svolse velocemente lungo il polso mentre la taglientissima fibbia cercava gli occhi dell'avversario. Li trovò e li fece esplodere entrambi in un attimo. L'arabo cacciò un urlo di morte lasciando cadere di mano l'innocuo oggetto di legno dipinto con vernice metallica che fino allora aveva stretto. Cieco e trafitto da dolori atroci fendette l'aria col trincetto mentre un secondo guizzo della fibbia gli tranciava giugulari e carotidi. Morì in pochi istanti. L'altro arabo aveva ingaggiato una impari lotta contro i due armati degli speroni del sordomuto. Uno dei due gli infilò il suo sperone nella gola fulminandolo all'istante.
Mentre dal fondo dell'aereo provenivano selvagge urla di giubilo, il capo spalancò la porta della cabina di comando. L'arabo che pilotava in quel momento l'aereo si girò a metà, ma non ebbe il tempo nemmeno di capire che qualcuno era entrato nella cabina: morì quando la lama della fibbia gli troncò di netto le vertebre cervicali. Si afflosciò sulla cloche e l'aereo abbassò subito il muso iniziando a precipitare.
-Via di qui! Ordinò alla sua gente il capo. Tutti verso il fondo!
-Salvali, lo pregò la ragazza che si teneva vicino il piccolo sordomuto; puoi atterrare, è tutta una pianura.
-Non è possibile, rispose il capo; ci hanno visto e non si dimenticherebbero più di noi.
Il Boeing mantenne il muso verso il suolo ancora per pochi secondi, poi si abbatté ai limiti di un giovane bosco.
Due contadini che si trovavano a circa quattro chilometri dal punto dell'impatto, pur correndo arrivarono sul posto più di un quarto d'ora dopo. Buon per loro che non fossero più vicini altrimenti avrebbero visto e raccontato cose che nessuno avrebbe mai creduto. Avrebbero raccontato di aver veduto uscir fuori dal rogo un gruppo di superstiti, cinque uomini, due donne e un bambino, che si erano allontanati chiacchierando come se fossero usciti da un cinema commentando il film che avevano appena veduto. Non avevano nemmeno i vestiti bruciati, un miracolo. Quei due poveri contadini avrebbero a lungo marcito in un ospedale psichiatrico. Fu una vera fortuna per loro essere arrivati in ritardo sul posto.
Subito dopo la caduta dell'aereo i componenti del gruppo di intervento uscirono uno alla volta dai rottami in fiamme; dovettero aspettare un paio di minuti il piccolo sordomuto che si era attardato a recuperare la cinghia di cuoio e i suoi speroni splendenti cui tanto teneva. Quando il piccolo arrivò si allontanarono rapidamente e sparirono in pochi minuti.

martedì 27 settembre 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Decima puntata


-E allora?
-Paracelso aveva affermato nel sedicesimo secolo che la terra è un grande magnete, e che la forza e la direzione delle sue correnti sono determinate dall'influenza delle sfere celesti, dai cicli delle stagioni, dai cieli cosmici. Per questo motivo si riteneva che il sistema delle correnti fosse mutevole, ma che comunque avesse un unico punto di origine, un punto critico detto "Umbilicus Telluris", il centro del mondo e l'origine del Potere.
-Ma questo era il segreto dei Templari!
-Brava! E proprio per questo furono massacrati da chi come loro rincorreva quel segreto inespugnabile. Ma non servì a nessuno cercare di scoprire l'Omphalos, l'Umbilicus Telluris, perché poi non avrebbero saputo che farsene. Non era vero infatti che poteva cambiare per i capricci della precessione degli equinozi, o per gli influssi degli astri, era vero bensì che era legato al "magnetismo perpendicolare" che tutto regola, e solo variandone l'angolo di incidenza si sposta l'Ombelico del Mondo e si ha in mano la leva del Comando e del Potere supremo.
-A sentire lei sembra tutto così facile, bello, perfetto; ma quando si sa come cambiare l'angolo di incidenza di questa forza immensa che cosa si riesce a fare?
-Si possono dirigere le correnti magnetiche telluriche, le pare niente?
-Non riesco proprio ad afferrare il concetto.
-Ma come fa a non capire l'importanza di una simile scoperta? Lei ha in mano la chiave per orientare la forza più potente del cosmo: può far variare il suo punto di caduta sulla terra -perché è qui che si gioca la partita, è la terra il campo di azione- e può provocare, per farle un esempio, uno spostamento di una quindicina di gradi dell'asse terrestre; oppure limitarsi a sballare l'ecosistema dell'America Latina, oppure spaccare in due l'America del Nord, dal Golfo del Messico alla Baia di Hudson; o scatenare uragani in Africa, maremoti e terremoti devastanti in Asia, lasciare sommergere tra quarti della Cina, sprofondare nel Pacifico il Giappone e metà delle Isole Filippine; mandare l'Australia alla deriva per tutto l'Oceano Indiano. Le basterebbe fare un paio di questi miracoli per avere i potenti della terra in ginocchio davanti a lei. Cosa pensa che avrebbe fatto Hitler se mio padre gli avesse consegnato la sua scoperta? Non le vengono i brividi?
-I brividi mi vengono a pensare che questa formula è ancora in giro. Perché non l'ha bruciata subito una volta capito di che razza di pericolo per l'umanità si trattava?
-Per rispettare la volontà di mio padre che aveva deciso che io ne fossi la custode, e perché altri l'avevano fino allora protetta e aiutato Katharina Kessler a farla pervenire nelle mie mani.
-Anche questo era scritto nella lettera di suo padre, immagino.
-Certamente.
-Anche i nomi di queste persone?
-I nomi no; ma le persone erano chiaramente indicate.
-Le stesse che le inviarono lo stivale perforato, penso.
-Sì, quelle.
-E che eliminarono Josephine, per intenderci.
-L'uccisione di Josephine fu un atto di estrema difesa del documento. Gli esecutori volevano impedire che la formula cadesse in possesso degli americani.
-Quindi erano agenti sovietici.
-No. Avrebbero agito allo stesso modo se fossero stati i russi sul punto di metterci sopra le zampe. Lei sta andando fuori strada, Verena. Nessuna nazione di questo pianeta deve entrare in possesso della formula, almeno fino a quando non ci sarà ai comandi una generazione di intelligenze superiori, capace di farne un uso pacifico, per il bene di tutti e la soluzione di tanti problemi, perché questo era lo scopo per cui mio padre ha lavorato, non la distruzione del pianeta o il dominio di un dittatore scellerato sul resto del mondo. Mio padre pensava che si potesse trasformare il Sahara in un immenso granaio, e il Gobi in risaie e frutteti e così vincere la fame nel mondo. Pensava che si potesse far riemergere l'Atlantide dal fondo del mare con tutti i suoi tesori; pensava che gli scienziati della futura società, non più costretti a studiare complicati ordigni di morte, sfruttando la sua scoperta avrebbero potuto sconfiggere le malattie più orribili e schifose che stanno distruggendo il genere umano. "I protettori" hanno creduto subito che si potesse costruire un simile mondo e hanno iniziato subito a proteggere mio padre e la sua scoperta. Apra i miei dischetti, Verena, legga dentro i file: troverà che questi "protettori", come li chiamo io, sono entrati altre volte in azione per salvare la formula, una volta in modo clamoroso.
-Quando? Contro chi?
Esther scelse uno dei dischetti e lo porse a Verena.
-La storia di quell'intervento è qui dentro, nel numero 4. Apra il dischetto e legga con attenzione.
-Lo voglio sapere adesso, dalla sua voce.
-Non trova che abbia già parlato abbastanza per oggi?
-Non leggerò quel file. Me lo racconterà lei quel che c'è dentro.
Esther fece un lungo sospiro, poi si risistemò sui cuscini.
-Otto anni fa alcuni servizi segreti arabi scoprirono il mistero del mio quadro; cioè vennero informati che quel Picasso che girava da Harrisburg a Washington e a New York era in realtà un falso e conteneva, trascritta sotto il dipinto, la formula di un'arma che poteva far vincere tutte le guerre. Cercarono naturalmente di impossessarsene ma ognuno per proprio conto, e si eliminarono per così dire vicendevolmente suonandosele sode, finché scoprirono che il Mossad israeliano zitto zitto era vicinissimo al dipinto e stava quindi per mettere le unghie sulla formula con cui Israele avrebbe poi dominato il mondo. Dopo frenetiche riunioni gli arabi decisero di distruggere la formula perché né americani né russi né tanto meno israeliani potessero averla, e incaricarono il gruppo terroristico di Al Qaida di effettuare la missione. Il gruppo era noto per la sua ferocia e determinazione, si poteva star certi che avrebbe colpito a morte chiunque gli avesse sbarrato la strada e che avrebbe distrutto qualsiasi obiettivo. Ma qual'era l'obiettivo? Dove era il quadro? Non c'era il tempo per ricerche prolungate, gli israeliani dovevano essere ormai prossimi alla meta, bisognava colpire immediatamente. Si sapeva che il Picasso era improvvisamente sparito nel silenzio dopo tanto clamore. Dove si trovava adesso? I capi di Al Qaida decisero di colpire in tutti i posti dove era stato esibito in mostre pubbliche e dove si poteva ritenere che fosse stato nascosto: quindi Pentagono, torri gemelle del World Trade Center e la villa del Governatore Upward a Harrisburg. Occorreva l'assoluta sicurezza della distruzione dell'obiettivo e fu deciso di dirottare quattro aerei di linea, che andassero dritti dritti a esplodere sui quattro obiettivi. La sorpresa dell'azione simultanea avrebbe tolto agli americani ogni possibilità di intercettazione e di difesa. Lei ricorda certamente i fatti, Verena; è cronaca di ieri. L'undici settembre del 2001 in poco più di un'ora tre aviogetti di linea si schiantarono sui loro obiettivi, provocando distruzione, morte e un'ondata di orrore nel mondo intero. Il quarto però non raggiunse mai la villa di Allen a Harrisburg, ma precipitò al suolo in aperta campagna a pochi chilometri dal suo traguardo. Sono state scritte favole sull'ammutinamento dei passeggeri che avrebbero affrontato a mani nude i terroristi. La verità è che "i protettori" della formula erano al corrente del piano di Al Qaida ed entrarono in azione su quello dei quattro aerei che stava volando nella giusta direzione, e che avrebbe distrutto il quadro e la formula. Apra il dischetto numero 4 e legga come è andata veramente su quel Boeing 757 quella mattina. "I protettori" completarono in seguito l'opera mettendo in giro la voce che la preziosa scoperta di mio padre era andata definitivamente perduta.
-È questa dunque la verità sugli attentati alle Twin Towers?
-È questa.
-Gli Stati Uniti hanno combattuto due guerre per vendicarsi di quegli attentati.
-E stanno per cominciare una terza.
-Non si può far nulla per evitare una nuova strage?
-Scriva il romanzo, Verena. Anche se non parlerà del segreto del falso Picasso il libro conterrà rivelazioni e messaggi. Può darsi che qualcuno capisca. Raccolga i dischetti, Verena, e cominci subito a lavorare; dimentichi ciò che le ho svelato io e scriva il libro, lo scriva a modo suo. Me lo prometta.
-Scriverò il romanzo, signora Samenberg, glielo prometto, Lo scriverò a modo mio.


martedì 20 settembre 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Carissimi amici, sono finalmente tornato da una luuuuunga vacanza e ricomincio a propinarvi il resto della storia. Lo so che il metodo è anomalo, ma c'è ben poco di "nomalo" in quel che faccio io. Avrei dovuto studiare bene i tempi e finire il racconto prima della mia partenza, ma non mi è passato nemmeno per la capa. I più intelligenti di voi mi scuseranno e visto che siete tutti genietti mi sento già scusato e glorificato.
Grazie, grazie, grazie.
E adesso avanti con la

Nona puntata

-Cosa le devo giurare che non so nulla di nulla? Ho solo visto quella fotografia che mi ha mostrato, ma non so niente altro del quadro, né dove si trova né dei segreti che nasconde.
-Giuri che non rivelerà a nessuno ciò che io adesso le dirò. Nessun altro dovrà venirne a conoscenza oltre a lei.
-Mi pareva di aver capito che c'era già qualcuno che conosceva il suo segreto, qualcuno disposto anche a uccidere.
-Quella gente non farà del male a lei.
-Ma guarda! Come fa a esserne così sicura? Hanno già ucciso Josephine.
-Non hanno però ucciso me.
-E come mai non l'hanno fatto secondo lei?
-Ammazzarono Josephine perché lei tentava di vendere il mio falso "Tête d'homme" a qualche pezzo grosso americano, un politico o un finanziere, non so bene, e quelli che l'hanno assassinata erano convinti che "Tête d'homme" celasse al suo interno il segreto di mio padre.
-E quando si sono accorti che quella crosta era solo un miserabile mezzo per arraffare quattrini come mai non sono venuti da lei a cercarlo 'sto segreto?
-A loro andava bene che rimanesse in mano mia.
-Questa poi! Cosa mi vuol far credere?
-Mi lasci finire. Quei signori volevano impedire che il segreto cadesse nelle mani degli americani, tutto qui. Quando videro che si trattava solamente di una crosta, come amabilmente l'ha chiamata lei, capirono che io non avevo dato ascolto al consiglio di mio padre. Mi inviarono lo stivale perforato per invitarmi a provvedere.
-Non ci capisco più nulla. Di quale consiglio mi sta parlando?
-Nella lettera contenuta nel pacchetto che ebbi da Katharina mio padre mi suggeriva un metodo per far sparire il documento prezioso che mi aveva inviato: avrei dovuto incollare una tela greggia dietro la tela dipinta di un qualsiasi quadro, e nel mezzo ben aderente sistemare il suo dannato foglio con la formula segreta. Lui non sapeva niente di me, quindi ignorava i miei studi d'arte a Brera e la mia mania di imitare lo stile di Picasso. Quando ricevetti lo stivale con la punta forata ed ebbi la certezza dell'avvenuta esecuzione di Josephine mi ricordai del consiglio che mio padre mi aveva dato e decisi all'istante di dipingere un terzo falso Picasso. Montai io stessa la tela con le misure originali de "Le baiser" e la fissai al muro al centro di una parete. Accesi il mio proiettore a specchio e vi inserii il foglio con la formula. Quando segni, parole e numeri risaltarono ben netti sulla tela bianca li ricalcai passandovi sopra la punta di un pennellino intinto in una boccetta di inchiostro di China. Appena asciutto dipinsi la copia di "Le baiser" in una sola notte. Controllai alla fine l'effetto: ponendo una sorgente luminosa davanti alla parte dipinta, io usai il mio proiettore, si poteva leggere in trasparenza sulla parte grezza della tela la formula tutta intera, ma capovolta; mi sembrava di leggere un testo di Leonardo, dopo tutto anche mio padre scriveva con la sinistra. A quel punto bruciai tutto, formula e lettera. Mi tenni solo quella piccola fotografia del nostro gruppetto di famiglia. Il problema era adesso dove sistemare un quadro di quelle dimensioni in modo che non corresse il rischio di essere rubato, danneggiato o tanto meno venduto. Tenerlo qui a Roma in questa casa non potevo, troppo spesso e troppo a lungo ero assente. A casa di mia madre a Harrisburg il Picasso sarebbe stato guardato a vista dalle guardie del corpo dell'ex generale di fanteria e prossimo Governatore della Pennsylvania. Incaricai una nota agenzia di spedizioni d'arte francese, e il trasporto mi costò un patrimonio per via del sontuoso imballaggio a prova di graffi, di lacerazioni, di sporco e di tutto quel che si poteva immaginare, e per l'esorbitante polizza di assicurazione per proteggerlo contro il furto, l'incendio e gli atti vandalici. E certamente dovette essere l'esborso di tanto danaro a convincere mia madre che di un autentico Picasso si trattasse. Conoscendo la sua vanità e la sua totale ignoranza per tutto ciò che era arte avrei dovuto immaginarmelo. Mai però avrei potuto pensare che facesse così tanto baccano in giro, invitando tutti i suoi conoscenti a casa sua per prendere visione del meraviglioso e costosissimo oggetto che sua figlia aveva acquistato in Europa. Negli Stati Uniti se tu sei la persona giusta al posto giusto ti basta alzare la voce ché ti sentono tutti. Per quel che ne so io non esisteva persona più giusta di Edith per queste messe in scena; lei era al posto più giusto trovandosi al fianco di un eroe della seconda guerra mondiale in fortissima ascesa politica, e alzò la voce così tanto che a qualcuno venne in mente di esibirlo in pubblico 'sto quadro così famoso.
Prima tappa, come era logico, il Pentagono in omaggio alla fulgida carriera militare di Allen. Poi al World Trade Center di New York in omaggio al potere economico; naturalmente nelle due torri gemelle, prima mostrato ai facoltosissimi clienti di una Banca al 124° piano della torre sud, poi lasciato troneggiare nella sala delle riunioni del più importante ufficio legale della City al 92° piano della Torre nord. Ignoro dopo quanto tempo fu riportato nella villa del generale ad Harrisburg, ma fu fatto in gran segreto per via di un paio di ispettori del fisco che annusata l'aria ci avevano sentita la puzza di un mare di soldi. Bisognava che il Picasso sparisse alla svelta, e io infatti lo ritrovai dopo un paio di anni nella soffitta di un'ala della villa, risistemato nell'imballaggio originale della esosa agenzia di spedizioni d'arte. Fui felicissima che fosse stato tolto dalla circolazione: ben presto lo avrebbero dimenticato tutti e il quadro se ne sarebbe rimasto tranquillo, preservato nel suo raffinato imballaggio francese, a disposizione di quella delle generazioni future che avrebbe saputo usare al meglio e per scopi pacifici la formula di mio padre. Così vedevo esaudito il suo desiderio e potevo ricominciare a vivere in pace.
-Soltanto una persona col suo sangue freddo nelle vene poteva continuare a vivere tranquilla dopo aver conosciuto e nascosto la formula del più terribile esplosivo mai realizzato.
-Non è la formula di un esplosivo, Verena.
-Di un nuovo ordigno nucleare più complesso e potente, allora.
-Niente affatto.
-Io non riesco a immaginare nulla più distruttivo di una esplosione nucleare.
-Faccia finta che l'effetto devastante della bomba atomica sia contenibile dentro questo mio bicchiere pieno d'acqua. Vada a versare l'acqua del bicchiere dentro il mare e si renderà conto che è incomparabile la differenza tra le due quantità di acqua, come è ovvio; allo stesso modo è impossibile paragonare la capacità di distruzione di una esplosione nucleare a quella infinitamente maggiore che si otterrebbe utilizzando la scoperta di mio padre.
Verena la fissava con gli occhi sgranati e la bocca semiaperta.
-Non riesco a crederle, mormorò.
-Infatti penso anch'io che il mare sia troppo poco, forse è troppo poco anche un oceano; dovrei dire che la differenza da valutare è quella tra un bicchiere d'acqua e dieci, cento oceani, ma non sarei mai precisa abbastanza, cosicché la relazione più prossima proprio quella usata da mio padre con l'espressione "all'infinito", perché è come una reazione a catena di cui nemmeno lui era in grado di prevedere l'intero sviluppo e quindi il risultato finale.
-Non aggiunga altro, per favore; mi ha terrorizzato abbastanza. Non voglio saperne di più.
-Dovrà invece. Solo conoscendone l'orrore tutto intero sono certa che terrà la bocca cucita su questo mostruoso segreto. Mi scrisse tutto nella sua lettera. Sosteneva che l'ipotesi della forza di gravità proposta da Newton a fondamento della meccanica celeste non era superflua, come la fece apparire Einstein con la sua Teoria della Relatività generale, perché anche lui aveva commesso un errore cercando di spiegare il movimento dei corpi nel concetto dello Spazio-Tempo curvo.
Mio padre mi scrisse che tutti i calcoli fatti nel suo laboratorio sui piani delle traiettorie delle orbite dei pianeti del sistema solare avevano registrato una differenza di più o meno trentacinque centesimi di grado di un piano orbitale rispetto agli altri; una differenza insignificante, tanto che proiettandola su distanze di milioni di chilometri dava la possibilità di considerare l'insieme delle orbite come tutte adagiate su un unico piano. Confrontando il nostro sistema solare con altri sistemi conosciuti e calcolando la differenza tra quelle orbite e le nostre il risultato era sconcertante: si poteva dire che tutte le orbite conosciute giacessero su un unico ideale piano. Questo portava a ridefinire l'Universo non come una massa in espansione sferica, cioè in tutte le direzioni in modo pressoché uniforme, bensì in una espansione piatta come un enorme disco. Da questa ipotesi partì mio padre per formulare la sua teoria degli "universi paralleli": due o tre o più universi , oppure, come lui enuncia, universi all'infinito, tutti paralleli tra loro, che si mantengono alla stessa distanza per effetto di una enorme forza, che lui chiamò "magnetismo perpendicolare", una forza che è la risultante di centinaia di migliaia, forse milioni, di magnetismi trasversali e paralleli agli universi, e che agendo tra i vari dischi, cioè tra i piani universali, mantiene l'intero sistema in perfetto equilibrio magnetico. Questo lo portò a rivoluzionare il concetto dello Spazio-Tempo aggiungendo alla formula di Einstein, Energia uguale alla Massa per il quadrato della Velocità della luce, il logaritmo del "magnetismo perpendicolare" che lui fu in grado di calcolare.
-Ferma, ferma! O non ci capirò più niente, le gridò Verena.
-Ho finito.
-Finito? E qual'era l'arma micidiale?
-Mio padre sarebbe stato in grado, cambiando alcuni decimali del suo logaritmo, di fare variare al "magnetismo perpendicolare" l'angolo di incidenza sui pianeti del sistema solare e quindi anche sulla terra.




venerdì 29 luglio 2011

TEMPO DI STACCARE

Sì, cari amici, è tempo di staccare, di andare al mare o ai monti o a tutti e due come faremo Annamaria ed io, visto che Udine dista mezzora dal mare e mezzora dalle montagne.
A tutti, ma proprio a tutti tutti tutti i miei amici e ai miei lettori, anche per una sola volta, io auguro vacanze tranquille, senza scottature solari, né botte finali in hotel per conti troppo pingui, e soprattutto vogliatevi bene ché il mondo è già troppo pieno di odio e di miseria, bisogna portarci amore ed amicizia.
Arrivederci a settembre, amici miei, con la prossima puntata del Picasso falso e perduto.
Ciao a tutti! :)))))))))))

martedì 19 luglio 2011

STORIA MAI RACCONTATA DEL FALSO PICASSO NON PIÙ RITROVATO

Parte ottava


Esther prese ancora un po' di tempo: si versò da una brocca un bicchiere di acqua fredda e ne bevve due sorsi; sprimacciò i suoi cuscini, vi si adagiò meglio e poi, visto che Verena se ne stava immobile e muta come mummificata nella sua poltrona, riprese a raccontare.
-Durante il mio soggiorno a Harrisburg, mentre lavoravo ancora al primo romanzo, mia madre mi confidò che Allen aveva saputo attraverso canali segretissimi dove mio padre se ne stava nascosto. Era riuscito a mascherare ben bene il suo passato, mi disse; insegnava matematica nella scuola inferiore di un paesetto non molto lontano da Leipzig. Voleva essere lasciato in pace e io fui felice di lasciarcelo. Io feci ritorno a Roma nell'autunno del '59 dopo la pubblicazione dell'ultimo romanzo della trilogia di Auschwitz, e incominciai subito le mie ricerche teologiche. Ero piena di lavoro fino ai capelli e a mio padre non pensai più. Fino all'estate dell'anno successivo quando mi vidi piombare in casa mia madre senza alcun preavviso. Mi annunciò la morte di mio padre. Pensai subito a un misterioso delitto, non so neanche io perché, ma il fatto era invece assai banale. "Gli è venuto un colpo secco mentre vangava l'orto di una vicina, mi disse mia madre scuotendo la testa; quando si è nati per studiare si studia e non si vanga, e non si corre dietro alle vicine", aveva concluso arricciando il naso. Ma si era tolta un gran peso dallo stomaco: insieme a mio padre avevano seppellito tutti i problemi e le ansie di mia madre. Mi ricordai dei segretissimi canali di informazione di Allen e pensai che in quel modo avessero appreso la notizia. "Mi sarebbe bastato telefonarti in questo caso, mi rispose mia madre; non avrei avuto bisogno di venire fin qui".
Aveva ricevuto una lettera da Riesa in Sassonia. A scriverla era stata una certa Katharina Kessler, che dava la notizia dell'avvenuto decesso e indicava il cimitero dove lo avevano seppellito. Diceva di essere in possesso di un pacchetto lasciatole da Isaia Samenberg, destinato alla figlia Esther. Per tutto quel tempo mio padre mi aveva inutilmente cercata: aveva saputo tutto di Edith, del suo nuovo marito, del suo nuovo indirizzo, ma assolutamente nulla di me. "Pensi veramente che io debba andarmi a cacciare in una avventura nella DDR per avere 'sto pacchetto?", chiesi a mia madre, mentre già mi veniva il mal di pancia a quell'idea. "Non dovrai muoverti da Roma, invece: fra poche settimane iniziano i Giochi Olimpici e le due Germanie vi partecipano con un'unica formazione sotto la bandiera del CIO. Katharina Kessler è una delle allenatrici della squadra femminile di nuoto. Con le conoscenze che hai non ti sarà difficile procurarti un pass da giornalista e andare a fare interviste qua e là. Lascia poi che ci pensi lei a come consegnarti il pacchetto". Alcuni amici mi fecero avere una tessera da fotografa de "Il Messaggero", accreditata per i Giochi. Avevo pensato che come fotografa avrei dato meno nell'occhio, sarei potuta entrare da per tutto e avrei avuto a tracolla un borsone con le macchine e i rullini, dove potevo agevolmente nascondere il pacchetto.
Incontrai Katharina quasi subito, una ragazzona scialba, morta di paura. Ci incontrammo ancora un paio di volte, ma lei non si fidava mai a portarsi dietro quel maledetto pacchetto. Non potevo continuare a far foto alle nuotatrici tedesche senza che qualcuno si accorgesse della mia assiduità, e glielo dissi. Mi diede appuntamento per la cerimonia di chiusura, quando tutti gli atleti si sarebbero mischiati tra loro all'interno dello Stadio Olimpico e ci sarebbe stata una gran confusione.
Così l'undici di settembre alle otto di sera mi infilai nella grande ammucchiata con una tuta della nazionale italiana di atletica leggera indosso. La vidi arrivare a grandi salti, guardandosi intorno con occhi atterriti: se fosse stata seguita l'avrebbero individuata in mezzo a un milione di persone per come si comportava. Mi cacciò in mano un pacchettino piatto e minuscolo, e scappò via saltelloni come era arrivata.
Tornai subito a casa e aprii il pacchetto: c'era dentro una foto che non avevo mai vista prima di un uomo giovane e spettinato, con occhialini da professore di liceo accanto a una bellissima donna molto giovane e florida, mia madre, che tenevano in braccio una bambina nata da non molto. Dietro, a penna, una data: "7 aprile 1934; cinquantasettesimo giorno di E.". La mia prima foto, non avevo ancora due mesi. Ripiegata in quattro una lettera per me senza data. Mi chiedeva perdono, pover'uomo, per non avermi mai incontrata; mi spiegava cosa fosse ciò su cui aveva studiato e sperimentato negli anni del nazismo, e mi rivelava di essere arrivato al risultato finale molto tempo prima della fine della guerra, ma di avere tenuto segreta a tutti la sua scoperta. Mi esortava a salvarla per chi in futuro avrebbe potuto utilizzarla al meglio, ma dovevo stare attenta che non cadesse in mani sbagliate. In una busta, piegato in due, un foglio pieno di una quantità di geroglifici strani, freccette, segni incomprensibili e tutta una serie di numeri. Quella era la formula dell'arma micidiale che avrebbe potuto cambiare il corso della storia dell'umanità. Ma a chi appartenevano le mani sbagliate cui alludeva mio padre?
-Ma chi era quella donna? la interruppe Verena; chi era Katharina Kessler e che relazione aveva con suo padre?
-Questo non l'ho mai scoperto. Glielo avevo chiesto appena l'avevo incontrata, ma non mi aveva risposto. Sembrava le avessero cucito la bocca e che tenesse perfino paura dei propri pensieri. Katharina emerse dal nulla, scomparì nel nulla e più nulla ho saputo di lei. Chiunque fosse godeva della assoluta fiducia di mio padre, al punto che lui lasciò nelle sue mani il suo prezioso materiale. Ci ho pensato su tanto di quel tempo, Verena: Katharina dimostrava qualche anno meno dei miei, avrebbe potuto essere un'altra figlia di mio padre, una mia sorellastra. Quando il Muro di Berlino cadde e la Repubblica Democratica Tedesca si sciolse come neve al sole feci sue ricerche; incaricai perfino una famosa agenzia investigativa privata inglese, ma l'unica Katharina Kessler che rintracciarono fu una donna nata nel '39 a Berlino, figlia di Elisabeth Kessler e di persona innominata, morta a Riesa nel '63 e sepolta in un piccolo cimitero, lo stesso dove tre anni prima avevano tumulato Isaia Samenberg.
Passati alcuni anni mi recai a visitare la tomba di mio padre. Era sotto un muro, in mezzo ad altre due: a destra la tomba di Katharina, a sinistra quella di sua madre Elisabeth. Una vera coincidenza, non trova?
Si versò ancora un bicchiere di acqua fredda e lo bevve avidamente. L'arsura indicava la presenza della febbre: Esther si stava inesorabilmente spegnendo.
-Tanta curiosità per quella donna e nessuna per la scoperta di mio padre; lei mi delude, Verena.
Non le rispose. Non mi hai fatto venire qui per dirmelo? pensò. Non vedi che me ne sto buona buona ad aspettare i tuoi comodi? Incrociò le braccia e accavallò le gambe con ostentazione. Come se avesse letto nei suoi pensieri, la signora Samenberg le fece un lieve cenno di mano.
-È vero, me lo ha già chiesto, mi scusi. Mi ha chiesto perché svelavo a lei i miei segreti e proprio adesso. Glielo dirò, Verena, stia tranquilla, ma prima debbo confessarle una bugia un po' sciocca.
Prese in mano la scatoletta per dischetti per PC aprendola.
-Le ho fatto credere che non avrei mai messo un dito sulla tastiera del suo computer, ché tanto non ci capivo nulla. Era una bugia. So usare solamente il Word, ma so usarlo bene. Mi sono aiutata con un manualetto e le ho rubato il mestiere con gli occhi mentre lei lavorava: so aprire un documento, so come conservarlo e nasconderlo nella memoria del computer, so scaricarlo in un dischetto, insomma so quanto basta e qui dentro ho il risultato.
Sparpagliò una decina di dischetti sul letto.
-Qui ci sono i file in cui ho schedato tutti gli appunti per una nuova storia, per un nuovo grande romanzo. Ci sono anni di studio e di lavoro; ci sono tutti i miei convincimenti, le mie deduzioni e le scoperte che ho fatto appena sono andata a fondo in questa storia, e il fondo, mi creda, è un abisso che mette paura. Per questo ho imparato a usare il computer: volevo raccogliere tutto in questi quadratini neri e non lasciare foglie foglietti a svolazzare in giro. La storia ormai è completa, ha un inizio e anche un finale, presumo; forse lavorando sodo anche di notte potrei farcela a scriverla tutta prima di piombare nello stato cachettico che preluderà alla mia morte. Ma temo di non avere più le forze già adesso per tentare questa impresa, e poi quale editore pubblicherebbe il libro di una vecchia oramai in fin di vita che fa il verso allo stile di una scrittrice morta da dieci anni? Nessuno, glielo dico io. Per questo consegno a lei tutti i dischetti: la pubblicherà lei la mia storia, col suo nome, a modo suo e con il suo stile.
-Dovrò convincerlo anch'io un editore, e non so come fare: io ho pubblicato finora solo storie ambientate nel medio evo.
-Questa comincia molto prima del medio evo, lo attraversa tutto e finisce, chi lo sa, forse nel futuro.
-Non credo sia pane per i miei denti, signora Samenberg.
-Si procuri una dentiera, allora. Ma di che cosa ha paura? Qui è bell'e pronta una storia completa, non deve arrovellarsi il cervello, ma solo comporre insieme le varie parti staccate e darle continuità. Un lavoretto leggero per una con la sua esperienza. Per evitare discussioni con il suo editore le consiglio un facile escamotage, un vecchio trucco letterario che funziona sempre: dichiari prima dell'inizio del romanzo, in un capitoletto di apertura, di avere ricevuto un manoscritto, come il libro dovuto alla penna dell'abate Vallet, che fu messo nelle mani dell'autore de "Il nome della rosa" a Praga, nell'agosto del 1968, pochi giorni prima dell'invasione delle truppe sovietiche. Quel piemontese grassottello ci ha imbastito un bestseller mica poi tanto male. Lei dia credito al suo manoscritto mettendoci date, nomi e luoghi precisi, nomi di morti, si capisce, di gente che non possa contraddire. Gliene suggerisco uno io, Theodolinde Pöchner, la segretaria privata di mia madre, così potrà inserire tra virgolette direttamente qualcosa di quel che ho scritto nei dischetti, contrabbandandola come citazione originale dell'illustre scrittrice Edith L.S.Upward.
La lascio libera di fare quel che vuole, Verena; le proibisco soltanto di fare cenno dell'ultimo falso Picasso, le proibisco di rivelare dove si trovi e che segreto sia legato ad esso. Questo me lo deve giurare adesso, prima che io le consegni i dischetti.