lunedì 27 dicembre 2010

IL CUGINO ADOTTIVO DI K. M. QUINTA PUNTATA

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Appena fu in grado di alzarsi dal letto e di rimanere in piedi lo trasferirono a Parigi con un treno della Croce Rossa; di lì in un centro di ricerche a Londra. Era una specie di immenso ospedale, dove i pazienti erano soldati usciti dai massacri delle campagne francese e belga e ammalati senza apparente rimedio: dissenteria senza fine, infezioni che non si riuscivano a curare, forme di pazzia non ancora registrate sui testi di psichiatria.
John Cally Filiput lì dentro era la ciliegina sulla torta, nel senso che era il caso più raro di tutti: lui era infatti l'unico superstite di un bombardamento a base di solfuro di etile diclorato, gas che dal luogo del suo primo impiego passò poi alla storia col nome di yprite.
Gli spiegarono che lui era per loro una specie di fenomeno vivente. La sua uniforme, i suoi scarponi, la maglia e le mutande erano impregnate di quel gas esattamente come gli indumenti dei morti. A costoro la pelle alcune ore dopo la morte si squamava e cadeva a pezzi, mettendo a nudo un ipoderma trasudante liquido vischioso e puzzolente. Tracce di quel gas avevano trovato anche sulle sue mani, sul collo e sulla faccia, depositato come una sottilissima polvere che inaridiva la cute. I primi soccorritori avevano provato con della garza a pulire quella polvere, che analizzata era risultata essere solfuro di etile diclorato in quantità in grado di ammazzare una compagnia intera. Lui però non era morto, non aveva danni all'apparato respiratorio né piaghe sulle mani o sul corpo. Niente gli era successo, se non qualcosa che lo aveva un po' mandato fuori di testa come quella storia che raccontava a tutti del suo camerata che prima lo aveva portato in salvo e poi se ne era tornato indietro a crepare. Ma questo si poteva spiegare: quando uno è passato attraverso un campo di morte come chi sfiora coi piedi un oceano in tempesta senza affogare, vedendo tutti i suoi camerati morire uno dopo l'altro senza emettere un fiato è certo che qualcosa gli va fuori posto dentro il cervello.
-Guarirò? Chiese al medico che gli stava parlando.
-Noi ce lo auguriamo tutti, ma nessuno sa come andrà a finire la tua storia, gli rispose il dottore; tu sei l'unico caso che abbiamo.
A guerra finita nessuno era in grado di dire se il fante John Cally Filiput, il cui nome era entrato di diritto nei testi di medicina, fosse effettivamente a posto con la testa oppure ancora no, e in questo caso nessuno poteva giurare che un giorno sarebbe tornata a posto quella povera testa. Di certo c'era che il paziente aveva sempre continuato a insistere con la sua assurda versione, "il mio amico Kurt Marx mi ha salvato la vita, correndo più veloce del vento"; ma tra i morti di quella mattina non c'era nessuno con quel nome, anzi in quella compagnia, in quel battaglione, in quel reggimento e in tutto il corpo di spedizione americano in Europa non era esistito nessun soldato che si chiamasse Kurt Marx.
John Cally Filiput fu dimesso dopo un anno esatto di ricovero. La guerra era finita da pochi mesi e il contingente americano era quasi del tutto rimpatriato. Rimanevano solo un paio di battaglioni della Sussistenza e della Sanità per ricaricare sulle navi le ultime briciole. John Cally Filiput fu aggregato a un reparto di Sanità, lui che non distingueva un ago ipodermico da una siringa, ma la guerra era ormai un ricordo e poi lui era un personaggio speciale: gli ufficiali si guardavano bene dall'impartirgli ordini, e i sottufficiali gli giravano alla larga.
Dormì durante tutta la traversata dell'Atlantico, quasi due settimane di mare per lo più calmo, mare adatto ai nuovi tempi di pace, ben diverso da quello del suo arrivo in Europa, mare agitatissimo da tempo di guerra.
Iniziò le sue ricerche da Richmond, dove la sua storia con Kurt Marx cugino adottivo di Karl Marx era incominciata; ma il suo reggimento si era sciolto al rientro in patria, e tutti i documenti erano stati spediti all'archivio centrale di Atlanta per truppa in congedo. Ormai era famoso negli Stati, aveva visto a Richmond che non gli facevano fare anticamera. Ad Atlanta gli bastò dire il suo nome perché tutti si mettessero sull'attenti e nessuno gli chiedesse per quale dannato motivo intendeva rimestare in quelle vecchie scartoffie. Gli misero in mano il pesante registro di tutti gli effettivi del 122° Reggimento negli ultimi cinque anni, gli sgombrarono un tavolo e gli misero a disposizione una comoda poltrona.
Non c'era su quel registro nessuna traccia di un soldato di nome Kurt Marx, non era mai esistito in quel reggimento, né risultava partito per la lontana Europa nessuno con quel nome.
John Cally Filiput se ne tornò immediatamente a Richmond, certo che l'unico posto dove poteva avere finalmente notizie del suo amico fosse l'amministrazione dell'ospedale dove era stato ricoverato quando ancora non era un soldato e dove Kurt Marx giaceva nel letto accanto al suo, ricoverato prima di lui in preda a un attacco di itterizia, giallo come un limone; le parole erano della crocerossina Adele, non se le era inventate lui.
Ma neanche lì risultava la presenza di un paziente con quel nome, non nel periodo prebellico, né durante né dopo la guerra. Per di più Adele si era sposata e trasferita altrove senza lasciare indirizzo.
-La maggior parte delle infermiere fa così, soprattutto quando sono molto carine, gli rivelò un sottufficiale; lo fanno perché qualche ammalato o qualche medico che si era montato la testa non le vada a cercare rovinandole magari il matrimonio.
Così veniva reciso il cordone ombelicale tra lui e il "tedesco". Non esisteva nessun dato relativo al fante Kurt Marx, di origine germanica ma morto a Ypres per mano germanica con indosso una uniforme americana, e che fosse americano come lui John Cally Filiput non aveva alcun dubbio, perché aveva visto coi propri occhi il nome sulla piastrina scritto in caratteri latini e non in gotico, come i nomi sulle piastrine dei soldati tedeschi morti che qualche volta gli era capitato di raccogliere prima di seppellirli. Non aveva sognato, un sogno non dura per più di un anno. Vero era però che se qualcuno gli avesse chiesto come parlava l'inglese Kurt Marx non avrebbe potuto dare una risposta: non sapeva che lingua parlasse Kurt Marx, non conosceva neanche il suono della sua voce perché Kurt Marx non gli aveva mai rivolto la parola, ma se ne era sempre stato buono buono ad ascoltare quello che diceva lui, dal momento che si erano incontrati in una corsia dell'ospedale militare di Richmond fino a quando lo aveva lasciato spossato ma salvo sopra una collinetta ai margini della nebbia gialla che si era fermata, prima di ritornare nella trincea.

3 commenti:

  1. (In effetti fin dal primo post mi ero chiesta cosa ci facesse un tedesco in un ospedale americano in tempo di guerra)
    BELLO, un bel racconto. Mai pubblicato su carta? Un vero peccato.
    A me piace molto la letteratura di guerra,
    perchè la storia siamo noi,
    ma la carne da macello erano i nostri nonni,
    i bambini che pativano la fame erano i nostri genitori,
    il soldato era il fidanzato della zia di nostro padre, che dal fronte le scrisse di rifarsi una vita, e quando tornò sperò che non lei non l'avesse ascoltato invece no, e mio nonno gli disse ho altre figlie in età da marito, ma lui se ne andò con la sua delusione e non si fece più vedere.
    Bisogna scriverle, queste cose, sperando che qualcuno le legga.

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  2. Ti vedo attenta e mi fa piacere: captare l'attenzione dei lettori è il desiderio, la passione di ogni scrittore, dico me.
    Scriverò un libro sulla vicenda bellica più triste della nostra storia, quella che qualcuno si ostina ancora a NON chiamare guerra civile, alla fine dell'ultima, con la lotta tra partigiani e antifascisti contro i repubblichini.
    Starò dalla parte di una donna, che sarà la protagonista.
    Bella, toccante la storia del soldato abbandonato dalla zia di tuo padre, che malgrado i più funesti auspici torna e la trova con un altro, magari un imboscato.
    Però ci sono tante cose belle nella vita.
    Ne ho trascritte un paio e aspetto un tuo mpost -qualunque esso sia, anche di politichese- per passartelo come commento. Penso che ti piacerà.

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  3. Ops... io pensavo che il racconto fosse finito così.
    Adesso vedo che c'è un'altra puntata.
    La leggerò domani, con occhi e mente freschi.

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