giovedì 23 dicembre 2010

IL CUGINO ADOTTIVO DI K. M. TERZA PUNTATA

3

L'eloquenza di John Cally Filiput ricominciò a diluviare parole sotto la tenda dove lui e Kurt Marx dormivano e passavano il tempo libero insieme a quattro altri disperati come loro, e a dire il vero gli sembrò che anche Kurt gustasse i suoi ragionamenti con maggior piacere.
Era venuta la luna buona a entrambi e non riuscirono a fargliela passare nemmeno gli acquazzoni quotidiani e interminabili che li avevano accolti in Belgio. Nella trincea sprofondavano nel fango fino ai polpacci. I vecchi camerati che avevano incontrato in quella valle di lacrime provarono a rincuorarli un po'.
-Non vi preoccupate, disse un caporale francese che doveva avere non meno di cinquanta anni; fra poco arriva l'inverno e tutta questa acqua diventerà ghiaccio.
Ridevano tutti i veterani, ma non sembrava che la Compagnia americana avesse molto gradito lo scherzo.
Dopo un paio di settimane, in cui per la verità non dovettero sparare nemmeno una volta, ebbero due giorni di riposo. Li trascorsero nel paese più vicino, Ypres. John Cally Filiput li passò quasi sempre ubriaco, mentre Kurt Marx lo trascinava da una bettola all'altra. Durante la notte si svegliò e gli sembrò di stare abbracciato a una ragazzotta formosa; gli sembrò che lei lo baciasse mentre facevano all'amore. Il letto dove stavano era assai grande, come il ponte di coperta della nave che li aveva portati in Europa. Sull'altro lato del letto vide Kurt Marx che se ne stava sdraiato a braccia conserte a osservare il soffitto. Non dormiva e non faceva all'amore con la ragazza che gli stava adagiata accanto. Al mattino quando John Cally si svegliò del tutto aveva un gran mal di testa; riuscì comunque a vedere che era solo nel lettone, e pensò di essersela sognata la bella ammucchiata della notte.
Al cader della sera tutta la Compagnia si mise in marcia per raggiungere la linea del fronte. Da come gli uomini camminavano si vedeva che stavano ancora pensando alla buona birra e alle ragazze lascite giù in paese. John Cally Filiput camminò tenendosi d'occhio per tutto il tragitto la punta dei suoi scarponi lucidi. Non gli veniva da dire una parola, e il suo improvviso mutismo lo sgomentava; ancor maggiore sgomento gli proveniva però da una preoccupazione latente, sotto pelle, che non aveva una causa precisa e forse proprio per questo gli metteva paura. Si augurò che la sua agitazione fosse dovuta al troppo alcool ingurgitato che gli faceva sentire le gambe assai pesanti; non ci si abitua mai alle sbronze, pensò. Dopo un po' gli venne il fiatone; si voltò a guardare Kurt Marx, ma non gli sembrò affatto affaticato.
Arrivarono di notte, decisamente in ritardo rispetto alla tabella di marcia prevista, in tempo comunque per prendersi tutte le bestemmie e le imprecazioni della Compagnia inglese che aveva dovuto aspettare il loro ritorno per potersene andare due giorni in licenza.
Alle prime luci dell'alba, grigia e freddissima, tutti gli uomini della Compagnia americana stavano coi nasi poggiati alle feritoie della trincea per vedere spuntare i chiodi degli elmetti dei soldati tedeschi dalla trincea di fronte, una cinquantina di metri dalla loro. Succedeva tutte le mattine, era una specie di saluto tra vittime predestinate: i tedeschi agitavano gli elmetti facendo danzare le punte di qua e di là, gli americani muovevano verticalmente i loro fucili e facevano ballare le baionette inastate con lo stesso ritmo dei crucchi.
Aspettarono a lungo, ma dei tedeschi e dei loro elmi chiodati non videro alcuna traccia. Che se ne fossero andati? Che avessero deciso di farla finita con quella guerra del massacro?
Cominciarono ben presto a serpeggiare le prime risatine, poi le risatone, poi gli sghignazzi e dopo un po' la trincea era tutta in festa. Alcuni si ersero con tutto il busto fuori dai ripari urlando frasi oscene in quella che credevano fosse una lingua comprensibile per il nemico; altri uscirono addirittura dalla trincea e malgrado gli urlacci dei sottufficiali e gli ordini degli ufficiali se ne rimasero fuori, chi sdraiato, chi seduto, chi pisciando, chi mostrando il culo nudo ai fantasmi dei tedeschi ritiratisi e sicuramente già sulla strada per Berlino.
In tutto quel casino udirono il fischio delle granate in caduta all'ultimo momento, riuscirono tuttavia ad appiattirsi tutti al suolo, chi dentro chi fuori dalla trincea. Ma quando le granate toccarono terra ed esplosero non fecero udire il ben noto schianto accompagnato dai vigorosi sibili delle schegge. Si sentirono piuttosto una serie di tonfi attutiti, come se i proietti contenessero bambagia e non esplosivo. I soldati sollevarono tutti istintivamente la testa per vedere e capire cosa stesse succedendo, ma non videro fumo, soltanto una nebbia giallastra che avanzava verso di loro e che ben presto raggiunse la trincea sprofondandoci dentro come risucchiata dal vuoto.
Quelli che ancora non erano avvolti dalla nebbia non potevano arrivare a capire cosa stesse succedendo, mentre quelli che ci stavano dentro erano già morti. Nessuno ebbe il tempo di lasciarsi travolgere dall'orrore, perché la morte correva velocissima per i campi quella dannata mattina. Nessuno sopravvisse, morirono tutti.
Tutti meno John Cally Filiput.
Appena le granate si smorzarono al suolo con tonfi sordi John Cally Filiput si sentì afferrare per il bavero del cappotto e trascinare via fuori dalla trincea da una forza sovrumana: volava a un metro da terra. Si rese conto che qualcuno lo stava portando via sotto un braccio come un pacco, lontano dalla trincea a grandissima velocità, qualcuno che gli teneva una mano davanti alla bocca e al naso permettendogli appena di respirare. Riuscì a girare il collo a metà vincendo la resistenza di quella forza onnipotente e vide Kurt Marx col volto tumefatto, come se lo avessero colpito infiniti pugni, gli occhi resi rossi dallo sforzo e da quella nebbia giallastra che ancora li inseguiva e sembrava avventarglisi addosso. Ma Kurt era più veloce della nebbia, più veloce del vento che soffiava dietro di loro, più veloce della morte che correva sul vento.
Poi di colpo il vento cadde e anche Kurt Marx diminuì la velocità della corsa. Alla fine si fermò e depose John Cally Filiput a terra. John Cally avvertì allora una profonda spossatezza, riuscì appena a vedere che Kurt stava tornando indietro verso la trincea silente. Lo vide immergersi in quella nebbia letale e svenne.


4 commenti:

  1. Non per essere sempre in urto con Silvia, ma il mio suggerimento è invece quello di RALLENTARE... :D

    Anche per dar modo a più lettori di accodarsi: già fa fatica a star dietro a questo ritmo e a non rimanere indietro un vorace lettore e blog-grafomane come me, ma altre persone esterne rischiano o di non fare in tempo ad accorgersi che il racconto a puntate è partito (e sarebbe un peccato) o di spaventarsi e ritrarsi per il ritmo troppo elevato e denso (e sarebbe un peccatissimo). Insomma, come collega scrittore non posso che restare ammirato da questo tuo nuovo lavoro che considero un meraviglioso regalo per le festività, ma come blogger ti dico, mi raccomando, dirada e rallenta, e se silvietta romp... ehm... incalza con i suoi e poi?, spiegale che il mondo dei blog ha le sue regole e tempi e misure, al di fuori delle quali si rischia di sciupare cotanta delizia creativa, e mandale piuttosto delle anticipazioni private via mail... :D

    Sempre a mio molesto parere, naturalmente, senza offesa per nessuno!
    Un grande abbraccio notturno con gli occhi arrossati dal troppo computer, carissimo amico mio!

    RispondiElimina
  2. Nobilissimo consiglio che afferro al volo: oggi infatti mi mantengo bassissimo e lentino, ma lascio sospeso solamente a Natale, perché non avrò nemmeno il tempo di fare pipì.
    Un enorme augurio a te, Nik, per una buoniiiissiiimaaaa festa di Natale.
    Un grande abbraccio diurno
    Ciao.

    RispondiElimina