venerdì 14 gennaio 2011

IL CUGINO ADOTTIVO DI K.M. ULTIMA PUNTATA

13.


John Cally Filiput non provò mai più ad avere una relazione lunga con una donna: non aveva mai avuto tanta fortuna, lo avevano lasciato tutte, chi in un modo chi in un altro, e lui alla fine aveva sempre dovuto soffrire anche se teneva duro e non lo lasciava vedere.
Iniziò una vita da monaco, tutta casa e bottega, contando i passi come si dice, senza fare mai una mossa superflua. Si sentiva appagato, si sentiva al sicuro, non si faceva venire tentazioni. E che la gente pensasse quello che gli pareva, tanto lui non aveva mai dato troppa importanza a quello che gli altri pensavano.
Così trascorsero tre lustri: Gli capitò qualche volta di passare davanti alle vetrine della "Modernissima Libreria d'arte FDR". Dopo un po' di tempo aveva visto un elegante signore a fianco di Silvia, uno che parlava quasi quanto lei, un pesce che nuotava bene in quell'acqua; ma John Cally non provò alcuna invidia. Se lo era cercato giusto giusto per lei ed era stata fortunata a trovarselo; a lui bastava la sua officina e l'appartamentino spartanamente arredato per uomini assolutamente soli, che soli intendono restare.
Silvia diventava più vecchia ogni volta che la vedeva; si era anche parecchio ingobbita, naturale lunga come era, e adesso non calzava più scarpe con tacchi a spillo. Le faranno male le gambe, pensò John Cally; succede alle donne che hanno camminato una vita sopra quei trampoli.
Una domenica che era andato in Duomo per ascoltare la messa solenne cantata nell'uscire se l'era trovata davanti. Era sola e lui le aveva fatto un cenno di saluto con la testa. Ci avrebbe scambiato anche due parole di circostanza, se lei non fosse rimasta impalata al suolo con gli occhi spalancati su di lui come se vedesse uno spettro; allora era scivolato via, scantonando per Piazza Diaz più velocemente che poteva. Cosa diavolo le era preso dopo tanti anni? Non poteva essere senso di colpa per averlo cacciato via da casa sua senza un motivo. Ma poi quale senso di colpa? Se si era stancata di lui aveva il diritto di farlo andar via. Forse però si vergognava ancora adesso per non averlo almeno avvertito prima, scaricandolo in quel modo. Ma un dubbio lo rodeva.
Rientrato a casa si tolse il soprabito, lo ripose dentro l'armadio e quando richiuse l'anta gli tornò riflessa nello specchio centrale la sua immagine. Andò alla finestra e la spalancò. Tornò a guardarsi nello specchio in piena luce. Si avvicinò e controllò i particolari del suo volto.
Per lui che si radeva due volte alla settimana era normale che quella sua faccia così apparisse, ma a Silvia che non lo vedeva da quasi quindici anni doveva essere venuto un colpo: John non era cambiato in niente dai tempi del loro sodalizio; non aveva capelli bianchi, non aveva rughe né borse sotto gli occhi né sotto il mento; non c'era un filo di grasso da buttare sul suo corpo, indossava al lavoro la stessa tuta di allora e la taglia dei pantaloni e delle giacche era la stessa. Insomma era rimasto giovane.
Silvia non sapeva niente di Kurt Marx e del mistero delle sue apparizioni, doveva averlo considerato un fenomeno della natura, una specie di mostruosità. Chissà come ci sarebbe rimasta male se avessero continuato a vivere insieme; pensa come se la sarebbe presa nel vedersi inflaccidire giorno dopo giorno, mentre lui rimaneva sempre lo stesso bel giovanotto fresco e liscio di pelle sul torace e sulle cosce, con un bel sederino sodo e senza la trippa di quelli della sua età.
Già, a proposito, qual'era la sua età? Giovanni Filippi era nato a Roma nel 1910, dicevano le sue carte, e quindi aveva sessanta anni; ma John Cally Filiput era nato in Virginia nel 1892, quindi aveva settantotto anni suonati, mentre lo specchio gli rifletteva l'immagine di un uomo ben tenuto e in salute di non più di trenta anni.
-Oppure di venticinque, osservò a voce alta.
Perché sempre quel numero? Perché ogni volta che voleva darsi un'età corrispondente alla sua apparenza gli veniva quella strana idea? Non lo sapeva, ma pensava sempre di doversi dare venticinque anni, e questo era un fatto. A forza di venirgli in mente quel numero e di farci su le sue riflessioni s'era convinto che un nesso ci dovesse essere tra il numero venticinque e la sua età apparente: lui aveva venticinque anni nel 1917, il giorno e il mese del massacro di Ypres, il 6 di novembre, e lì era rimasto con la memoria, al momento del primo salvataggio di Kurt Marx. Era quindi una sua fissazione, era lui che si voleva vedere così come allora, perché bastava che si sforzasse un po' con la memoria per rivedersi con indosso l'uniforme del 122° fanteria: aveva più o meno quella corporatura e quella faccia, ancor più somigliante adesso che così di rado e malamente si faceva la barba.
Dopo quella domenica mattina evitò di passare in Piazza Missori davanti alla Libreria per non incontrare più Silvia, ma la faccia esterrefatta della donna che lo guardava sotto la navata del Duomo non gli si cancellò più dalla mente.
Passati ancora otto anni iniziò un velocissimo declino. Silvia era morta da pochi giorni, "dopo rapida e inesorabile malattia" come diceva l'annuncio mortuario sul Corriere della Sera. Era andato al suo funerale rimanendo sempre in ombra in fondo alla chiesa. Tornato a casa si era sentito male, la prima volta dopo tanto tempo. Gli era mancato il respiro nel fare la rampa di scale che lo portava dall'officina al suo appartamento. Si era disteso sul letto, ma il malore non passava, così era rimasto immobile per il resto della giornata. La mattina dopo si era guardato allo specchio e aveva capito: rughe profonde che il giorno prima non c'erano solcavano il suo viso e gli avvizzivano il collo e le mani, e poi aveva un senso di oppressione al torace, dentro il quale il cuore batteva come un martello, e le gambe se le sentiva molli e debolissime.
Dopo un paio di giorni in quello stato si recò da un medico. Ormai non riusciva quasi più a fare le sue cose quotidiane, ed era dovuto rimanere seduto su una sedia in officina col fiato corto.
Il dottore gli aveva detto che a sessantotto anni potevano capitare crisi improvvise come quella, e gli aveva prescritto alcuni farmaci, consigliandogli inoltre di farsi ricoverare in una clinica per fare tutti gli esami e gli accertamenti. John Cally Filiput gli rispose che ci avrebbe pensato, e se ne tornò a casa sua senza nemmeno passare dalla farmacia.
Passo dopo passo sentiva che il peso della sua effettiva vecchiaia gli si stava rovesciando addosso tutto in una volta. Un peso intollerabile per uno che non aveva avuto il tempo di abituarvisi come tutte le persone normali. Ma da ogni male nasce un bene. Qualcuno aveva dette quelle parole, o lui le aveva lette da qualche parte; comunque dovevano essere vere perché John Cally Filiput sapeva che stava per rincontrare Kurt Marx. Proprio per questo non aveva comperato le medicine che il giovane medico gli aveva prescritte e non sarebbe mai entrato in una clinica. Era sotto la personale protezione di Kurt, e sapeva che stava per arrivare.
Pensava di dover aspettare giorni, forse settimane ancora, ma si trattava di ore: quella notte stessa ne avvertì la presenza nella sua stanza. I fortissimi dolori al torace non gli avevano dato requie per tutto il giorno, ma poi sfinito dalla stanchezza si era appisolato. Di colpo si era risvegliato senza capire quanto tempo avesse dormito. Sentiva che Kurt era nella stanza e lo chiamò sottovoce. Lui emerse dal buio di un angolo, visibilissimo senza che alcuna luce lo illuminasse e John riuscì a vederlo benissimo in ogni dettaglio. Vestiva di nuovo la divisa americana del 122° Reggimento di fanteria, e sedeva sulla sua poltrona.
-Non te la sei mai tolta, vero?
Kurt Marx scosse la testa.
-Adesso sei venuto a rimettermi a posto, ma per quanto tempo ancora?
Kurt si alzò in piedi e venne verso di lui, un breve passo.
-Ora non più, rispose: adesso io e te ce ne andremo insieme.
Gli tese la mano e John Cally Filiput gliela prese. Appena le loro mani si sfiorarono John si sentì leggero e giulivo come mai era stato; un soffio di vento gli penetrò le membra e una profonda sensazione di libertà lo invase.
-Non sono più vecchio, Kurt, non sono più malato.
-Te l'ho detto che io ti proteggo, non può succederti nulla di male, John. Da questo momento non ci lasceremo mai più.
John questa volta aveva capito.
-Sono morto Kurt?
Il "tedesco" lo guardò in silenzio; poi spalancò la bocca in un sorriso di gioia lasciandogli rivedere lo spazio vuoto tra gli incisivi superiori.
-Posso dare un'ultima occhiata al mio corpo?
-Guardalo pure, gli rispose Kurt.
John Cally Filiput si girò verso il letto, ma una nebbia aveva riempito la sua stanza, una nebbia fitta e grigia. Provò a diradarla con le mani e cominciò a vedere qualcosa emergere, pian piano. Ma non era una stanza, piuttosto una radura, melma e buche fangose dappertutto, che venivano invase velocemente dalla nebbia, non più grigia ma gialla. Guardò con maggior attenzione e gli sembrò di vedere un profondo camminamento, una trincea scavata e disposta a zig-zag nel terreno. Aveva già visto quel posto, ne era certo. Poi di colpo la nebbia si diradò e scomparve e lui vide i corpi abbandonati nel fango, dentro le buche, nel fondo della trincea.
-Ma è la nostra trincea a Ypres, esclamò John. Perché mi viene adesso davanti agli occhi?
-Guardali bene quei fanti, gli disse Kurt.
-Sono i nostri camerati, li riconosco tutti.
-Anche quei due avvinghiati là in fondo?
Si avvicinarono e John vide chiaramente il corpo di Kurt, ucciso dal gas. Tra le braccia come per proteggerlo stringeva un fante più piccolo di lui, che aveva il viso sprofondato nel fango.
John lo rivoltò.
E rimase a guardarlo a lungo.
-Dunque è allora che sono morto?
-Non si è salvato nessuno quella mattina.
-Ma perché ho vissuto ancora, Kurt? Che senso hanno avuto tutti questi anni? Puoi farmelo capire?
-Ero io quello destinato a vivere ancora per sessantun anni, John, non tu. Ma io ho commesso un delitto atroce: mi sono tolto la vita sparandomi un colpo tra i denti, e come vedi ne porto il segno. Dovevo pagare il mio debito: dovevo assicurare quei sessantun anni a un altro della mia stessa età, e io l'ho fatto. Adesso che ho pagato il mio debito resterò sempre con te, perché i sessantun anni di vita che abbiamo in comune ci legano per sempre.
John Cally aveva soltanto una domanda da fare, e la fece.
-Perché è toccato proprio a me, Kurt?
-Io questo non lo so. Mi sono trovato in una strada di Richmond in un giorno d'estate del 1916 all'improvviso, poche ore dopo il mio funerale a Limburg. In quella strada sotto il sole in quel momento passavi tu. Eri tu quello che io dovevo proteggere. Questo è quello che so.
-Adesso ho capito tutto.
-Bene, disse Kurt; allora se è così ce ne possiamo andare via da questo posto.
-Sempre insieme Kurt?
-Noi due sempre insieme nell'Universo.
-Potrebbe essere un buon titolo per un romanzo di avventure, o per un fil, non trovi?
-Sì, potrebbe, concluse Kurt e si avviò velocemente.
Era quasi giunto alla fine della trincea. John Cally Filiput dovette mettersi a correre per raggiungerlo.

*****

11 commenti:

  1. BELLO! Mi è piaciuto anche il finale!
    Mi è venuto in mente il film la vita è meravigliosa , con l'angelo che salva l'aspirante suicida. Qui invece è il suicida che salva il primo che passa, per riscattare la sua colpa.
    Un bel racconto, che purtroppo ho letto a singhiozzo, di sera, alterandone il sapore; lo dovrei rileggere da capo, con lucidità mattiniera, per apprezzarlo come merita.
    Un bel film, con LA STORIA e IL DESTINO come interpreti d'eccezione.
    (ma con un titolo diverso da Noi due sempre insieme nell'Universo !)
    Complimenti.

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  2. **Silvia- Grazie, ma hai dimenticato di chiedermi il perché il tuo giudizio fosse importante.
    Forse sono presuntuoso io a pensare che ti potesse interessare.

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  3. **Silvia- il mattino dopo un grazie mi sembra veramente troppo poco. Hai letto tutto il racconto e lo hai trovato BELLO, a tutte maiuscole, e io me la cavo con un grazie.
    Accostare il mio racconto al film capolavoro di Frank Capra è un onore, ma solo per quel che riguarda l'angelo che doveva ritrovare le ali perdute e compie la sua buona azione della vita, strappando alla morte l'aspirante suicida. Il resto era un po' mieloso, come i film dell'epoca.
    Non c'entra nulla con l'etica di questo racconto, che pure tu hai sfiorato in un precedente commento.
    Non ci faranno un film purtroppo con la Storia e il Destino interpreti principali, ma ringraziamo commossi per l'idea.
    Il titolo del film esce dalla bocca di J.C. Filiput, non dalla mia penna. Il titolo eventualmente sarebbe diverso.

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  4. Bravo Enzo, mi è piaciuto molto come anche a tutti i colleghi e tu sai..., heheheheh. Trova un editore in Germania e pubblicalo. Merita.

    Ciao. :)

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  5. **Lenny - Sono contento che ti sia piaciuto tutto.
    Per quel che riguarda un editore qui in Germania, sai che ci sto pensando?
    Forse sarebbe più facile trovarlo qui che in Italia, dove mi pare che ci sia un po' troppa confusione.
    Comunque grazie assai.
    Pensi ancora di farne una brochure per te e i tuoi colleghi?
    Ciao. :)

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  6. Come ti avevo scritto nei precedenti commenti ho stampato su carta qualche copia e l'ho fatta girare in ufficio. I filtri web non permettono l'accesso ad alcuni siti e purtroppo nemmeno su Blogger.

    Perché no... Non sarebbe male fare una brochure digitale, una sorta di libretto in pdf. :)

    Ciao.

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  7. **Lenny- Comunque l'idea di stamparlo su carta era fortissima ed è venuta a te (a chi altri, se no), e mi fa piacere così i tuoi colleghi lo hanno letto.
    Arigrazie e ariciao.

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  8. **Silvia- Non avevo letto bene. Pertanto ti spiego perché PER ME il tuo giudizio era importante.
    Perché tu, di solito, non digerisci racconti, come dire, di fantasia, dove si realizzano situazioni oltre le righe della realtà, un po' nel mondo dell'utopia.
    Ricordi certamente che ti ho mandato, via mail, il primo capitolo del libro che sto scrivendo, "La stanza sospesa"; ricorderai certamente che non sei stata entusiasta di quella situazione irreale e impossibile, a tuo giudizio.
    Allora mi sono detto: vedrai che non le garba sto genere di storia, e invece ti è garbata molto. Un pochino perplesso ci rimango, ma credo che tu abbia intuito il vero senso del racconto: la vita non è mai come ce l'aspettiamo noi, e forse la vita altro non è che una rappresentazione del pensiero nostro o altrui, una commedia che viviamo più o meno intensamente, scritta già forse da qualcuno o da qualcosa cui non possiamo prescindere, cui non possiamo sottrarci.
    Sono contentissimo che ti sia piaciuto "il cugino".
    Adesso aspetto il commento di Nik.

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  9. Il tuo commento mi ha mandata a rileggere un tuo vecchio glorioso post, la forza del destino.
    http://iacoponi.blogspot.com/2010/04/la-forza-del-destino.html
    Che bella discussione ne era nata poi!
    Ecco la cosa brutta dei blog: si consuma l'ultimo post a mò di usa e getta e i vecchi scritti rischiano di finire nel dimenticatoio!

    ... Sì è vero come gusto di lettura prediligo le storie realistiche, ma sono consapevole del fatto che non tutto si può spiegare con la razionalità.

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  10. Ecco, finalmente è arrivato anche il lettore ritardatario... Che dire? Questa storia, che mi ha fatto lontanamente pensare a un Dorian Grey più fantastico e più virtuoso, ma non meno rabbrividente, mi ha tenuto per tutti questi giorni una gran bella compagnia. Complimenti sinceri, amico e collega!!!! Il finale è davvero bellissimo!

    p.s. penso anch'io che, potendo scegliere, trovare un editore in un Paese progredito e civile sia più facile e vantaggioso che trovarlo qui da noi.

    p.p.s noticina finale davvero di poco conto, da prendere come comunicazione di servizio e non come inutile pedanteria: alla quintultima riga ti è scappato un fil al posto di film. Il fatto che me ne sia accorto è solo merito tuo, perché significa che mi hai fatto tenere vigile l'attenzione con un racconto che meritava! Fosse stata una ciofeca di Ammaniti, il fil mi sarebbe sfuggito... :D

    Buonanotte!

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  11. **Nik- Dulcis in fundo. E che "dulcis"! Silvia mi accosta a Frank Capra, tu addirittura a Oscar Wilde.
    Sono soddisfatto perché vi è piaciuto ed avete, ognuno a vostro modo, trovato dentro al racconto quel che in effetti c'era.Il tuo era il giudizio letterario cui tenevo maggiormente, a quello di Silvia tenevo per via delle sua estrema sensibilità in fatto di letture.l
    Me la sono cavata bene.

    ps. ci penserò, ma è difficile anche qui, bisogna avere le conoscenze giuste per poter bussare alla porte giuste.

    pps. mi fa piacere che lo abbia visto tu, e solo tu, per l'estrema attenzione con cui lo hai letto -so quanto poco tu sia pedante, amico mio- e ho deciso di non correggere il refuso, in tuo onore.

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