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Erano da poco tornati da una breve vacanza sulle Alpi bernesi, e mentre John Cally controllava gli ultimi carichi di merci arrivate in sua assenza sentì urlare a gran voce nel cortile e sulle scale degli uffici. Si affacciò alla sua finestra e vide due uomini in una uniforme come le tante che in quei tempi si potevano incontrare per le strade: stivali ben lucidati, camicia color cachi e un bracciale rosso con la croce uncinata al braccio sinistro.
Anette si affacciò alla finestra e gli fece cenno di ritirarsi immediatamente. Le urla continuarono ancora un po', finché non sentì il passo cadenzato e marziale degli uomini in uniforme che si allontanavano. John Cally Filiput discese col cuore in gola le sue scale per correre da Anette; la trovò in piedi nel suo ufficio rossa in viso. Gli intimò di seguirla. Salirono sulla Benz e lei mise subito in moto.
-Sono nei guai? Chiese lui.
-Siamo tutti nei guai, gli rispose e tirò via dritta.
Lo accompagnò fino a casa raccomandandogli di non uscire per nessuna ragione al mondo.
-E non rispondere al telefono.
Sparì velocemente e John Cally rimase solo a tormentarsi l'anima girando e rigirando per le stanze vuote.
Anette tornò che era sera tardi insieme a suo padre.
-Mi dispiace mister Filiput, disse il vecchio; mi dispiace tanto, ma lei non può più lavorare da noi.
-Perché i miei genitori sono ebrei? Ma che cosa c'entro io? Non ho mai frequentato la Sinagoga in America, tanto meno qui da voi. Non mi interessa niente la religione dei miei avi: mio padre si arrabbiava tantissimo con me, diceva che ero un cane sciolto senza collare, un randagio insomma; cosa c'entro adesso io con gli ebrei?
-Glielo abbiamo detto chiaro e tondo a quella gente, gli rispose Anette; ma non hanno sentito ragioni, per loro sei solamente uno sporco ebreo. Domani mattina torneranno e se ti troveranno ancora al tuo posto di lavoro arresteranno te e mio padre. Per mio padre sarebbe qualche anno di prigione, ma per te probabilmente sarebbe la morte.
-Morirò comunque di fame: nessuno mi darà più un lavoro.
-Prepara la tua roba e fallo in fretta, ce ne andiamo di qua durante la notte.
-Dove andiamo?
-Dobbiamo essere ai confini con la Svizzera prima dell'alba. Ho un'amica a Basilea, potremo rimanere da lei finché non troviamo una casa e un'occupazione.
-Tu pensi che i nazionalsocialisti non arriveranno anche laggiù?
-La Svizzera è neutrale da sempre. Là saremo al sicuro.
Partirono dopo un paio d'ore. Il padre di Anette aveva preparato una borsa con tutti i soldi che erano nella cassa, quasi tremila Reich Mark, sufficienti per tirare avanti tre o quattro mesi, poi avrebbero dovuto arrangiarsi.
Passarono da Heidelberg, poi da Karlsruhe e alle cinque di mattina raggiunsero la periferia di Freiburg. Erano ormai a una settantina di chilometri dal confine svizzero, ancora un'ora e sarebbero stati in salvo. Anette aveva guidato per tutta la strada veloce e tranquilla; non si era mai fermata e non aveva mai dato segni di nervosismo o di stanchezza. John Cally notò però che la ragazza cominciava a dimenarsi un po' sul suo sedile.
-Sei stanca? Vuoi che guidi io per quest'ultimo tratto?
-Io sto bene, gli rispose; sono preoccupata perché da qualche tempo ci viene dietro una macchina.
L'uomo si voltò a guardare: una grossa auto nera, una Auto Union gli sembrò. Procedeva a fari spenti alla loro stessa velocità. Data l'ora il guidatore poteva vedere la strada anche senza accendere i fari, ma era comunque un comportamento strano.
-Pensi che sia la Gestapo? Gli chiese lei con un fil di voce.
-Ci avrebbero già fermati; e poi cosa fa la Gestapo, segue una macchina a caso, tanto per tenersi in esercizio?
-Non direi una macchina a caso, obiettò lei; direi la macchina giusta.
-E chi ha fatto la spia? Lo sapeva soltanto tuo padre.
-Lui no di sicuro, ma mille occhi ti scrutano oggi in Germania e mille orecchi ti ascoltano.
John Cally Filiput sapeva che Anette aveva ragione e che loro si trovavano in pericolo, ma non intendeva terrorizzare la ragazza per cui si mise a ridere.
-Voi tedeschi dite di essere tanto forti e poi crepate di paura per un nonnulla, ma mentre parlava sentiva il sudore gelarglisi sulla schiena e le gambe che gli si erano indurite come pezzi di legno. Si voltò per l'ennesima volta.
-Prova ad andare più veloce e poi rallenta di colpo. Vediamo quello che fa lui.
Anette aumentò la velocità fino a 120 chilometri orari. L'Auto Union nera perse immediatamente contatto e quando la ragazza rallentò a 90 rimase a una distanza doppia rispetto a quella di prima.
-Lo vedi che non c'è da temere proprio nulla? È qualcuno che forse ieri sera ha bevuto un po' e stamattina si è dimenticato di accendere i fari.
-Spero che tu abbia ragione, concluse lei, ma si sentiva alleggerita di un peso.
Arrivarono al confine poco dopo le sei. C'erano sette o otto macchine davanti alla loro e i gendarmi controllavano i documenti con estrema lentezza. L'Auto Union nera sembrava scomparsa. Dopo di loro era arrivato un piccolo furgone azzurro e altro non si vedeva arrivare.
Visto? Le disse lui e si stiracchiò braccia e gambe.
Toccava a loro finalmente e i due gendarmi si avvicinarono e chiesero i documenti in modo garbato, dopo averli salutati con un tocco alla visiera del chepí.
-Li dia a me quei documenti, brigadiere.
Un ordine perentorio. I due gendarmi scattarono sull'attenti coi volti tesi quando videro la targhetta che l'altro aveva mostrato. Un uomo alto, con cappello di feltro scuro e un soprabito nero di pelle. Una divisa ormai nota e temuta in tutta la Germania. John Cally Filiput allungò il collo fuori dal finestrino e vide il muso dell'Auto Union che spuntava da dietro il furgone azzurro.
-Da dove venite? Chiese l'uomo alto ad Anette.
-Da Heidelberg, mentì lei e John Cally capì che erano perduti.
-Credevo fosse un luogo comune che più le donne sono belle più sono bugiarde, e invece devo ricredermi, perché ne ho incontrata una proprio adesso, guarda un po'.
-Ma noi veniamo dalla parte di Heidelberg, insistette Anette.
-Che sbadato che sono! È vero, venite proprio da quella parte. Le farò la domanda in modo più preciso: da dove siete partiti?
-Da Francoforte.
-No, Fräulein Bischof, ancora una piccola bugia. Voi siete partiti da Heusenstamm, dove lei abita insieme a quel signore che le siede adesso accanto. Noi vi abbiamo seguiti da allora.
Lei ebbe un moto di rabbia e John Cally non riuscì a trattenerla.
-Perché non ci avete fermato prima? Gridò.
-Questo glielo spiegherò al nostro Comando, le rispose seccamente l'uomo.
Li separarono subito. Fecero salire lui sulla Auto Union, lei sul furgone azzurro. Quella fu l'ultima volta che John Cally Filiput vide Anette Bischof.
A guerra finita rintracciò l'amica di Basilea di cui ricordava nome e indirizzo. Marianne Viehglocke gli raccontò che dopo un anno di carcere durissimo Anette era stata trasferita in un centro di lavoro e di riabilitazione nei pressi di Cottbus, a pochissimi chilometri dal confine polacco. Aveva ricevuta da lei una lettera e qualche cartolina fino a metà del 1942, poi più nulla. I genitori di Anette erano morti sotto un bombardamento aereo, mitragliati in una strada di Francoforte. Forse era morta anche lei, pensava Marianne, altrimenti si sarebbe fatta sentire.
Quella mattina, partiti dal confine svizzero, nella Auto Union nessuno fiatò. Contrariamente a quanto John Cally temeva non fu picchiato al Comando, né torturato e nemmeno interrogato. Fu trattato in modo decente, e se ne meravigliò moltissimo; arrivarono ad offrirgli addirittura una sigaretta di buona marca e un caffè.
-Zucchero e latte? Chiese il poliziotto in uniforme che gli aveva portato il caffè. Roba da non credere.
Dopo un paio d'ore fu accompagnato in un cortile. Ad attenderlo c'era un furgone scuro dove fu fatto entrare senza che nessuno fiatasse. Sedette sul fondo scomodamente, e appena il furgone si mosse si sdraiò rannicchiandosi in un angolo al buio. Chiuse gli occhi e dopo un po' dormiva. Le ultime ore erano state molto agitate e lo aveva vinto la spossatezza. Si svegliò quando il furgone si fermò con stridore di freni. Si tirò a sedere e attese. Il portellone posteriore fu aperto e John Cally Filiput fu abbagliato dall'improvvisa intensissima luce. Mentre si stropicciava energicamente gli occhi socchiusi gli sembrò di intravedere una forma massiccia che gli faceva ampi cenni di uscire. Non era in grado di muoversi un po' perché non ci vedeva ancora bene, un po' perché aveva le membra intorpidite e indolenzite. Qualcuno entrò allora nel furgone e lo prese per un braccio, una presa forte ma non violenta come di chi voglia aiutare e non trascinare l'altra persona come un sacco di stracci.
Saltarono giù insieme. L'altro continuava a sorreggerlo per un braccio.
-Ce la fai a correre?
Riconobbe immediatamente la voce di Kurt Marx. Lo guardò in viso e gli vide una specie di smorfia, come se stesse soffrendo.
-Dobbiamo attraversare tutto il bosco al di là della strada.
-Arrivi giusto in tempo Kurt, riuscì a balbettare John Cally.
-Appena in tempo. Guarda lì alla tua destra, disse mostrandogli una fossa scavata di fresco. L'avevano preparata per te questa mattina. Ho dovuto faticare molto questa volta, e sono contento di avercela fatta.
Durante tutta la corsa attraverso il bosco Kurt Marx non disse più una parola, ma tenne sempre il suo amico per un braccio, quasi sollevandolo da terra, tanto che lui nemmeno aveva il fiato corto né una goccia di sudore.
Raggiunsero una spianata priva di alberi; affrontarono un altro bosco ancora più folto e intricato di piante basse con un sottobosco impervio, ma Kurt andava come una falciatrice, veloce e sicuro. Alla fine degli alberi incontrarono una recinzione di filo spinato.
-Dall'altra parte è la Svizzera. Vai sempre dritto per oltre tre chilometri, poi troverai una strada sterrata. Vai dalla parte della discesa ed entrerai in un paesino molto tranquillo. C'è una fermata d'autobus, tu ti siedi e aspetti. Sali sul primo che passa e scendi alla Stazione Centrale di Zürich. Mangia un pasto caldo e prendi il primo treno per Milano.
-Un momento, un momento, lo interruppe John Cally; devo fare tutto da solo come nell'ospedale? Vuoi dire che te ne andrai di nuovo?
-Io ho fatto quello che dovevo, di più non mi è concesso. Ora devi fare tutto da solo, ma non correrai nessun pericolo.
-Sono ancora sotto la tua personale protezione?
-Sempre. Come vedi sei vivo e libero. Fai quello che ti ho detto e non ti capiterà nessun inconveniente.
Trasse di tasca una busta di tela rigonfia.
-Qui dentro ci sono abbastanza soldi in franchi svizzeri per sopravvivere un po' di tempo. Poi c'è un passaporto italiano: da questo momento tu ti chiami Giovanni Filippi, nato a Roma nel 1910. I tuoi genitori sono morti quando tu avevi nove anni vittime della "spagnola".
John aprì la busta e ne trasse un passaporto verde con lo stemma sabaudo al centro, due fasci littori ai lati e la scritta in oro "Regno d'Italia". John Cally sfogliò le prime pagine e guardò la foto di Giovanni Filippi.
-Ma non ho più la faccia di uno di venticinque anni, provò a protestare; guarda qui che musetto da ragazzino.
-È una foto di tre anni fa, quando ti hanno rilasciato il passaporto. Allora avevi ventidue anni e quella faccia da bambino, adesso hai solamente un po' di barba sulle guance e i capelli non più a spazzola ma con la riga a sinistra. Però la faccia è quella, stai tranquillo.
Rise e gli mostrò il vuoto al centro degli incisivi superiori.
-Su questo foglietto c'è un numero telefonico di Milano. A chi ti risponderà dirai solamente il tuo nome. Adesso vattene prima che arrivi la Gestapo.
Lo spinse verso il recinto e gli tenne aperto un varco nel filo spinato.
Appena John Cally fu dall'altra parte Kurt Marx si volse per andarsene.
-Ti rivedrò ancora? Gli gridò dietro John.
-Sì, mi rivedrai ancora, gli rispose Kurt senza fermarsi; ma non so quando.
Un attimo dopo era scomparso nella boscaglia.
John Cally Filiput, alias Giovanni Filippi, si fece di corsa il tratto di bosco che lo separava dalla strada sterrata; affrontò la discesa con passo spedito e dopo alcune centinaia di metri scorse le prime case di un paesetto venirgli incontro; erano come quelle che stanno su certe cartoline postali, il tipico quadretto agreste. Non si vedeva anima viva in giro, ma si sentiva un buon odore di biada tagliata da poco. Vide una tettoia con una tabella per orari e una panca e subito vi si diresse. Si fermò un attimo accanto alla vetrina di un panettiere. Non voleva comprare nulla, bensì dare un'occhiata nel vetro per vedersi la faccia. Kurt gli aveva assicurato che era come quella della foto, un ragazzotto con un po' di barba ed era proprio curioso di controllare. Vide riflessa l'immagine di un giovanotto. Era di nuovo ringiovanito di una quindicina di anni, il prodigio si era ripetuto.
Oramai non si poneva più domande su chi fosse e da dove venisse Kurt Marx, gli bastava sapere che sarebbe di nuovo venuto, almeno ancora una volta.
L'autobus che arrivò era vuoto e nessuno vi entrò fino a Zürich. Scese alla Stazione Centrale; comprò giornali in lingua tedesca, francese e italiana, una rivista inglese e si avviò all'interno della stazione per fare il biglietto per Milano. C'erano da aspettare quattro ore, aveva il tempo di rifocillarsi e di fare due passi nei dintorni.
Sul treno nessuno gli rivolse la parola e questo gli andava benone, perché per la maggior parte si trattava di viaggiatori italiani e lui parlava quella lingua molto stentatamente. Si domandava cosa sarebbe successo alla frontiera quando la polizia italiana gli avrebbe fatto domande, ma nessuno gliene fece. Un graduato dei carabinieri diede appena una guardata al suo regio passaporto e glielo ridiede senza proferire una parola.
Come previsto il racconto riprende quota... e ci lascia anche con qualche dubbio e curiosità: perché il suo angelo custode vuol fargli lasciare la sicura Svizzera per la pericolosa Italia fascista, appioppando una finta cittadinanza italiana a uno che parla poco e male l'italiano?
RispondiElimina**Nik- L'idea mi è venuta così, senza pensarci tanto sopra. A bocce ferme, cioè a racconto ultimato, ci ho fatto una riflessione: credo che fosse giusto così, farlo ritornare alla terra dei suoi antenati, da dove Giovanni Calogero era partito. Ma forse erano altri i motivi, forse volevo fargli vivere qualcosa che avevo vissuto io in una Italia lontana e in una più recente.
RispondiEliminaSpero che il seguito rimanga in quota.
Acc.... NIK mi ha tolto il dubbio di bocca, anzi di penna.
RispondiEliminaPer fortuna anche gli angeli custodi toppano, ogni tanto, togliendosi l'aureola e venendo ad assomigliarci un tantino.
Speriamo che non toppi il nostro, di angelo. Che il mio non rimanga incastrato con le ali tra i rami del cipresso, ad esempio.
Finora ha dato del suo meglio, devo dire, ma prima o poi si stancherà anche lui, no?
Secondo dubbio: perchè l'angelo Kurt ha una smorfia di dolore quando ritrova il suo protetto? Forse che gli succede di prendere su di sè il male dell'altro, o forse la sua età, come succede al ritratto di dorian gray?
**Non toppa: procede secondo una logica che al momento è incomprensibile, intervenendo solo quando è indispensabile, soprattutto per tirare le lancette orarie indietro.
RispondiEliminaSecondo dubbio: ammazza! Sei una notevole osservatrice, forse era sfuggito anche a Nik, che guardava alla sostanza ed ha sfiorato il dettaglio.
Mi piace l'osservazione.
Spiegazione: perché soffre; Kurt soffre per un motivo che non posso anticiparti. È una sofferenza intima, non organica, la peggiore matrice di dolore.