lunedì 10 gennaio 2011

IL CUGINO ADOTTIVO DI K.M. UNDICESIMO

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La guerra durò ancora tre anni, per la maggior parte dei quali John Cally Filiput, cioè Giovanni Filippi, passò da un ospedale all'altro: una conseguenza di quattro mesi di marcia estenuante a venti gradi sotto zero. Gli si erano bucati i polmoni, gli disse un medico militare nell'ospedale di Brindisi. Dopo sei mesi di cure lo spedirono nel Gargano a riempirsi i polmoni di aria di mare. Pensavano così di guarirgli la tubercolosi. Alloggiava e mangiava in casa di poveri pescatori che avevano un figlio imbarcato in un sottomarino. La madre piangeva ogni giorno, poveraccia, e trattava quel giovanotto come se fosse il figlio marinaio. John Cally Filiput non arrivò mai a sapere se il sommergibilista fosse un giorno ritornato a casa.
Al momento dello sfascio dello Stato italiano, dopo l'otto settembre 1943, non si trovava più un soldato, un poliziotto o un carabiniere in giro. John Cally si aggregò a un gruppo di reduci dalla Russia come lui, malati e malridotti come lui, che decisero di rimanere al Sud perché al Nord avrebbero trovato i tedeschi. Volevano aspettare l'arrivo degli Alleati nascondendosi come potevano.
Ad arrivare per primi furono alcuni reparti di soldati indiani dell'Ottava Armata, che li presero tutti prigionieri; John però per via della perfetta conoscenza della lingua inglese fu subito assegnato come interprete al Comando della Terza divisione corazzata. Finalmente fu curato con medicine e non con aria pura, e finalmente fu abbondantemente rifocillato. Riuscì perfino a ingrassare, visto che stava tutto il santo giorno seduto e che per spostarsi in quell'esercito venivano usate automobili o motociclette e che quasi nessuno andava a piedi.
Si fece tutta la Campagna d'Italia con indosso una tuta mimetica grigio blu fino alla Liberazione. Allora gli procurarono una divisa di capitano di artiglieria del Regio esercito, un paio di stivali ben lucidati e un berretto troppo largo per la sua testa, ma di meglio non c'era.
Così conciato partecipò da interprete alla riunione dei comandanti degli eserciti alleati liberatori con i capi politici e militari dei partigiani e i rappresentanti ufficiali del CLN, il Comitato di liberazione nazionale. In quella occasione conobbe Silvia, figlia di un generale italiano in congedo, partigiana e membro dell'Azione Cattolica, assai devota ma con una lingua pepatissima. John moderò molto la traduzione di quel che la ragazza diceva agli anglo-americani altrimenti ci sarebbe magari scappato un incidente diplomatico.
Rincontrò Silvia un anno dopo a Milano. Quattro chiacchiere, poi la ragazza lo invitò a casa sua per una spaghettata. Moriva dalla fame, disse. Viveva da sola; il vecchio generale aveva un'amante francese che se lo era portato a Marsiglia, dove poteva respirare a pieni polmoni l'aria del mare ligure, lui che era nato a Savona. Silvia aveva un ottimo Scotch whisky, e dopo un paio di sorsate trovò il coraggio di portarsi a letto quel maschio strano che le era subito piaciuto tanto.
Per John Cally Filiput fu un doppio affare: trovò una casa ampia e centrale senza doverla cercare e fu introdotto senza dover pagare dazio nel ricco mondo della Milano bene, che votava compatta per il nuovo partito dominante, la Democrazia Cristiana. Mondo fatto di grossi favori "dare e avere", di raccomandazioni anche queste "andata e ritorno"; insomma tutto un "do ut des" in cui lui senza Silvia si sarebbe immediatamente smarrito. Le disse che voleva ricominciare la sua vecchia attività di restauratore e rilegatore di libri antichi, ma lei gli consigliò una Libreria specializzata in libri d'arte e testi rari, meglio se smoderatamente costosi, perché certa gente comprava la cultura a peso. La Libreria doveva diventare un luogo d'incontro per gente altolocata, e lei l'avrebbe diretta. Trovarono dei locali molto ampi in Piazza Missori, cuore di Milano, a due passi da Via Broletto dove abitavano, e passarono tre mesi a programmare la serata del vernissage, che doveva essere un evento di cui avrebbero parlato i giornali e la Radio.
E fu un evento con più di settecento invitati ufficiali e un migliaio che telefonavano in continuazione, perché proprio non avrebbero voluto mancare. Ma l'accorta regia di Silvia De Rossi riuscì a far combinare tutto al meglio. Il risultato fu che nei dodici saloni per un totale di oltre ottocento metri quadrati della "Modernissima Libreria d'arte FDR" la gente non riusciva nemmeno a muovere un braccio, e chi aveva un bicchiere pieno poteva ringraziare Dio, mentre chi non riusciva ad agguantarlo al volo veniva trascinato lontano dal buffet come un fuscello sopra onde agitate, e si sa che chiacchierare due ore a gola asciutta fa seccare la lingua.
Il giorno dopo metà di quella gente aveva la raucedine, tuttavia se ne rimaneva per delle ore beatamente attaccata al telefono a raccontare con voce bassa e roca quel che la sera precedente aveva visto e sentito.
La "Modernissima" divenne in breve tempo l'incrocio della vita culturale della borghesia cittadina, dove gli intellettuali si incontravano quasi casualmente all'inizio, ma poi finirono per darsi appuntamento ogni sera nei locali di Piazza Missori. "Ci vediamo in Libreria" arrivò per questa gente ad avere lo stesso valore dell'antichissimo "ci vediamo in Galleria" dei vecchi milanesi. In seguito cominciarono a darsi appuntamento alla "Modernissima" anche coloro che appartenevano agli ambienti politici locali, e insieme a loro naturalmente tutti i ciarlatani, gli imbroglioni e i perditempo, ma sempre gente di razza dall'eloquio ricercato, che comprava i vestiti a Londra e gli orologi a Ginevra, e che si portava sempre dietro le giovani amanti impellicciate e vestite da Dior.
Silvia viveva la sua giornata in quell'ambiente come una regina nel suo palazzo reale. Era chiaramente nata per stare in mezzo a tutta quella brava gente e si muoveva come se galleggiasse in un acquario, in primo piano davanti al pubblico assiepato dietro il vetro più grande. Vestiva quasi sempre di seta nera, perché era bionda e altissima, pertanto il nero le donava e l'allungava ancora di più, in modo che si aveva l'impressione che lei fosse di una testa al di sopra di tutti gli altri. Naturalmente portava anche tacchi a spillo che le snellivano le gambe ancor più di quanto non fossero. Una gran bella figura faceva, non c'era niente da dire, ma questa sua presenza dominante dava a John Cally Filiput ogni giorno più fastidio.
Così, mentre aumentava a dismisura il giro di affari e si propagava l'eco dell'importanza della loro libreria nel ristretto e bigotto mondo culturale nazionale, fino a farla diventare un punto di riferimento perfino negli ambienti governativi della capitale, di pari passo aumentava il dispetto di John Cally, che arrivò pian piano a disprezzarsi per quel suo ruolo di gregario di lusso che Silvia gli aveva ritagliato.
Lì per lì lei non fece troppo caso alle sue continue brevi assenze, finché non cominciarono a diventare lunghe di ore. L'istinto le fece annusare una presenza femminile. La prima scenata di gelosia arrivò una sera, appena chiuso il portoncino posteriore da dove uscivano di solito.
Occorse mezzora quella sera per fare i due passi che li separavano da casa perché lei ogni dieci metri rimaneva piantata al suolo costringendo John a fermarsi e ad ascoltare tutti i suoi improperi, e che sentissero anche gli estranei sembrava che a Silvia infuriata non importasse più niente. John Cally ne fu sbalordito, perché non aveva mai gettato l'occhio su nessuna delle tante Veneri che si accompagnavano ai loro preziosi clienti. Ciò che immaginava Silvia non gli era mai passato per la testa, lui non era mai stato un farfallone. Respinse pertanto sdegnosamente le insinuazioni della donna, si chiuse a riccio di fronte al prorompere delle sue ingiurie e se ne andò a letto saltando la cena come mai aveva fatto prima. Per Silvia un chiaro segno di disagio, cioè a dire di coscienza sporca.
L'indomani mattina ingaggiò per telefono il più famoso detective privato milanese, della cui pubblicità erano pieni tutti i giornali. Quando un mese dopo ebbe in mano la relazione del detective, pagata a carissimo prezzo, seppe che il signor Giovanni Filippi se ne andava quotidianamente a passeggio per il Parco e per le vie del Centro; visitava chiese; entrava in cinema di prima come di terza visione, uscendone a metà spettacolo, e tutto questo sempre da solo.
Silvia capì che il suo uomo si annoiava a morte a starsene chiuso nella Libreria e che forse aveva bisogno di tornare al suo vecchio lavoro di rilegatore. John Cally vinse il primo impulso di rifiutare e di mandare Silvia all'inferno e si mise a cercare un posto adatto; lo trovò non molto distante dalla "Modernissima", in un cortile di un grosso palazzo in Corso Italia.

7 commenti:

  1. Enzo, ricordi che qualche giorno fa ti dissi che dovevo stampare le puntate del tuo racconto per rileggerlo con calma? Detto > fatto e in ufficio stamattina ha avuto un successone fra diversi miei colleghi. Si complimentano con te, ti ringraziano e non vedono l'ora di leggere il finale. Ora, però, mi tocca creare una piccola brochure del tuo lavoro finale, heheheh. Grande Enzo, mi ha fatto davvero piacere vedere i colleghi così contenti di averti letto.

    A presto. :)

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  2. Grazie fratellino! Hai avuto una grande idea. Così sei diventato il mio editore! :))
    La brochure falla dei colori che tu sai, non potrebbe essere altrimenti: in guerra e in pace i nostri colori sono quelli.
    Mi inorgoglisce pensare che ti stia piacendo il mio racconto e che piaccia anche ai tuoi colleghi, che non conosco ma ti prego di ringraziarli a nome mio.
    Il seguito a tra poco.
    Ciao fratellino e che Leo ci aiuti!!!

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  3. Però, che montagne russe (in tutti i sensi) in questo magico racconto: dalla bella vertigine di esser fatto prigioniero "dagli indiani" (!) al grigiore (fertile d'opportunità e occasioni, ma pur sempre grigiore) dell'italica democristianità...

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  4. Forse sono solo stanca, e dovrei rileggere il tutto TUTTO INSIEME, stampando le puntate come ha fatto lenny (certo che in quell'ufficio l'atmosfera è bella rilassata e LA FOTOCOPIATRICE lavora di brutto! ;) -non è che c'è un posticino vacante anche per me?)
    Bò, non so come spiegarmi: ho l'idea che qualsiasi racconto di guerra sia troppo forte, intenso, distruttivo, tremendo per poter proseguire in un racconto di pace senza che si percepisca una incrinatura nel ... non so in che cosa, aiutami tu se capisci ciò che intendo.
    E' come se insieme le due cose non potessero amalgamarsi, come voler fare un'insalata di carne e pesce.
    ... Ma forse è solo una giornata sversa ..

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  5. Dimenticavo, la new entry femminile non mi sta molto simpatica. Con quel nome, poi.
    Una donna che deve pagare un uomo per capire cosa c'è che non va nel SUO uomo non ha l'aria di essere tanto intelligente... :)

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  6. **Nik- La prima Italia del dopo guerra civile, quella della cosiddetta "prima repubblica" fu una nazione pervasa da veleni e da fermenti di rinascita. La mia generazione, i quattordici-quindicenni, era felice di poter camminare guardando da tutte le parti e non soltanto col naso in su a scrutare il cielo, perché da lì veniva la morte.
    Eravamo allegri, ma la guerra continuava, soprattutto quella civile, in ogni senso.
    Ma c'era tanta speranza, che oggi mi sembra non ci sia proprio.

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  7. **Silvia- Sono grato a te e a tutti per tutti i commenti e accetto le critiche quando sono obiettive e4 la tua lo è a prescindere, perché ti conosco.
    Hai però preso un granchio, per due ragioni:
    1- non è un racconto di guerra, ma il racconto di molti anni di una vita, quella di John Cally, dove passano due guerre, è vero, ma tante altre cose.
    2- Non si traggono conclusioni e non si tirano giù giudizi se non si è arrivati alla fine. Può darsi che il finale ti deluda ancora di più, ma prima leggi poi stronchi. Amabilmente, come tuo solito, non beceramente come ha fatto O. con "Martedì".

    IL racconto è del 2007, precedente al nostro incontro sul web. L'omonimia è quindi del tutto casuale. Mi sono ispirato ad una giovane signora della Milano bene conosciuta negli anni 60.
    SDR non è stupida, ma intelligente e colta, solo obnubilata dalla gelosia, che non le permette più di capire nulla del proprio uomo, come succede a ogni donna che, quando viene assalita dalla feroce bestia verde, ragiona coi paesi bassi e non più col cervello.

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